martedì 6 dicembre 2016

TOP12 2016




TOP12 2016


La cosa strana è che quest’anno ho letto molto più su carta che sull’e-reader (in un rapporto di circa due a uno). Le vecchie abitudini non muoiono mai. Per peggiorare le cose, quando leggo un libro in elettronico che mi piace molto, poi finisce che lo ricompro su carta. Perché voglio tenerlo lì. Toccarlo. Al punto che per certi autori ho tutto doppio: una cartella con i file elettronici e uno scaffale con le file di libri. Che ci volete fare, ognuno ha le sue ossessioni.


1) Ben Marcus – The Flame Alphabet (Granta, 2012) 
Di fatto è un romanzo di fantascienza, anche se non sembra. L’idea è che gli adulti diventino violentemente allergici alla voce degli adolescenti. Poi la malattia degenera. Pure la scrittura diventa fonte di sofferenze continue. Anche soltanto la vista di una parola scritta diventa micidiale. L’unica soluzione è partire, lasciare le città in mano ai ragazzini.
Ben Marcus è uno scrittore di scrittori. Basta leggere quel che dicono di lui Michael Chabon, Rick Moody, Tom McCarthy e Jonathan Safran Foer. Forse da grande diventerà un grande scrittore tout court.




2) Ben Lerner – Leaving the Atocha Station (Coffee House Press, 2011) (ed. it. Un uomo di passaggio, Neri Pozza, 2012) 
Un personaggio di Purity (un mediocre romanzo inutilmente lungo) si domanda perché tutti i nuovi scrittori si chiamino Jonathan (Franzen, Lethem, Safran Foer). La domanda è sbagliata. Tutti i nuovi scrittori si chiamano Ben (Marcus, Lerner).
Un giovane aspirante poeta riceve una prestigiosa borsa di studio per andare a Madrid a studiare il rapporto tra letteratura e guerra civile spagnola. Viene accolto benissimo. Tutti sono pronti a dargli consigli su cosa leggere e cosa ricercare. Peccato che lui non sappia neppure di cosa stiano parlando. Il suo spagnolo è precario, la sua cultura pure (tra le altre cose è convinto che Ortega y Gasset sia due persone diverse, come Deleuze e Guattari). Il suo rapporto con l’arte e con la poesia è inafferrabile. Il fatto che Lerner abbia scritto in precedenza tre libri di poesie e che abbia effettivamente goduto di una borsa Fullbright di un anno a Madrid non deve trarre in inganno.


3) Georges Simenon – Les Pitard (Gallimard, 1935, scritto nel 1933) (ed. it I Pitard, Mondadori, 1937) 
Sto leggendo tutti i non-Maigret in ordine più o meno cronologico. Ne ho già letti una ventina, ma il cammino è lungo. Se alla fine ho scelto questo Les Pitard è perché si svolge in mare e Simenon non ha uguali quando può viaggiare per mare con un capitano grosso, irascibile, impenetrabile, incomprensibile, taciturno, umanissimo, insomma un personaggio che trasuda maigrettitudine.






4) Paul Auster – Oracle Night (Henry Holt, 2003) (ed. it. La notte dell’oracolo, Einaudi, 2004)
Sto leggendo tutto Paul Auster, me ne mancano quattro o cinque. Auster è un cerebrale (non è un segreto che gli piaccia Beckett), è un involuto. Uno che comincia una storia per raccontare la storia di uno che racconta una seconda storia, e in quella seconda storia ci troviamo ad ascoltare qualcuno che ne racconta una terza, che è poi il libro che sta scrivendo e che noi stiamo leggendo. E a quel punto non c’è più ritorno. Tra imprevedibili mosse del cavallo, timidi e delicati pas-de-deux, stravolgimenti inconsulti e stranianti, svianti mise en abyme, siamo presi dall’ebrezza della grande letteratura. E ci perdiamo.


5) Jeff Vandermeer, Mark Roberts (a cura di) – The Thackery T. Lambshead Pocket Guide to Eccentric & Discredited Diseases (Night Shade Books, 2003)
Tutto comincia quando Vandermeer e Roberts mandano a una dozzina di amici scrittori l’invito a redigere un finto rapporto medico su finte malattie. In breve tempo la cosa scappa loro di mano. Gli autori diventano 58 (tra questi Michael Moorcock, Neil Gaiman, Rhys Hughes), il libro raggiunge le 320 pagine. Non tutti i contributi sono allo stesso livello. Il gioco stesso rischia alla lunga di diventare ripetitivo. Però considerate questo: considerate il caso della “Malattia delle città fantasma” presentato dal Dottor Nathan Ballingrud. Una malattia che fa sì che le sue vittime si trasformino in città popolate da fantasmi. Nel libro troviamo non solo la versione inglese del rapporto, ma anche il testo originale in spagnolo (in realtà tradotto da Gabriel Mesa e presentato da un certo Diego Funes), testo che era stato pubblicato per la prima volta in Argentina nella raccolta Guida tascabile alle malattie metafisiche, curata nel 1977 da Jorge Luis Borges. Non so se mi spiego.


6) Don DeLillo – Great Jones Street (1973) (Great Jones Street, Einaudi, 1997)
Sto leggendo tutto DeLillo, me ne mancano cinque o sei. Ci sono degli alti e dei bassi. Underworld è un grande libro. Cosmopolis o Americana un po’ meno. Quel che è costante è la qualità della scrittura. DeLillo suona bene. Sono le parole stesse a fare l’andatura, non il loro significato. Se le parole arrivano alla fine a costruire una trama o un personaggio, tanto di guadagnato. In caso contrario non importa.
Great Jones Street è la storia di una rockstar che decide si scomparire dalla scena e quindi si rintana in un appartamento nella strada eponima. Naturalmente tutti sanno dov’è. Naturalmente tutti lo avvistano altrove, nei luoghi più impensati. E tutti lo vogliono coinvolgere in qualcosa, un ritorno sul palco o un traffico di droga. E tutto questo, non c'è che dire, suona bene.


7) Amélie Nothomb – Hygiène de l’assassin (Albin Michel, 1992) (ed. it. Igiene dell’assassino, Voland, 2001)
Non ho ancora capito fino a che punto Nothomb mi piace. Quel che posso dire (sono appena all’inizio, ho letto solo due romanzi e due racconti lunghi) è che si tratta di una scrittrice solida. La faccia da ragazzina viziata, col trucco pesante e la pelle biancastra, che spuntava dalle sue copertine mi aveva fin qui tenuto lontano dai suoi libri. Sta di fatto che Nothomb non è un bluff.






8) Dany Laferrière – Comment faire l’amour avec un nègre sans se fatiguer (VLB, 1985) (Come fare l’amore con un negro senza far fatica, La Tartaruga, 2003)
Originario di Haiti, scappato in Canada, attualmente Accademico di Francia (al posto di Bianciotti), Dany Laferrière è un miracolo di leggerezza. Con la vita che ha fatto avrebbe tutti i diritti di ammorbarci con storie di sangue, di violenza, di sopraffazione ecc… E invece lo troviamo lì, nel freddo canadese, a battere sui tasti di una macchina da scrivere che era stata di Chester Himes e che naturalmente non è mai stata di Chester Himes. Laferrière parla di Charlie Parker, di gatti, di negritudine, di mosche, di pompini, di India Song. Se potesse, Laferrière parlerebbe di niente.


9) Colson Whitehead – The Colossus of New York (2003) (ed. it Il colosso di New York, Mondadori, 2004)
“Ci sono stanze che puzzano di diesel”, dice Tom Waits in una sua canzone “in cui puoi riprendere i sogni di quelli che ci hanno dormito dentro. “ (9th & Hennepin)
Whitehead fa qualcosa del genere con New York. Questa non è una guida alla città, è una guida ai segni che lasciano le persone che attraversano la città, che prendono la metropolitana, che arrivano e partono, che corrono per Central Park o passano per il ponte di Brooklyn. Whitehead descrive i luoghi, ma oltre ai luoghi materializza a parole quel che resta nell’aria dopo che tutti se ne sono andati via.


10) Chelsea Martin – Even Though I Don’t Miss You (Short Flight/Long Drive Books, 2013)
Il genere si chiama flash-lit. Pezzi brevi, abbozzi di racconti, sfoghi lunghi quanto due tweet, aforismi, prose che costeggiano pericolosamente la poesia, considerazioni acide sul mondo e sugli uomini, battute secche.
Come per esempio: “Ieri ho visto una ragazza per strada, lacrime scendevano lungo un viso del tutto inespressivo, bocca aperta, non emetteva suoni, né badava ad asciugarsi le lacrime dal viso e dal collo, così adesso so di non essere l’unica a fare una cosa del genere.”
Oppure: “Alcuni dei miei amici fanno fatica ad abituarsi al fatto che io legga poesia al cesso e con la porta aperta, ma si vede che non leggono il tipo di poesia che leggo io.”


11) Adam Thirlwell – Multiples (Portobello Books, 2013)
“Cosa rimane di un testo narrativo quando passa da una lingua all’altra?” si domanda Adam Thirlwell. Uno scrittore magari passa un giorno intero a cercare le mot juste (Flaubert) per vedere poi vanificata tutta la sua fatica nella traduzione. Oppure no? Per verificare questo Thirlwell s’inventa uno stress test, come quelli che si fanno per le banche. Prende una dozzina di racconti e chiede a degli amici scrittori di tradurli in un’altra lingua e quindi ad altri scrittori ancora di tradurre quelle traduzioni e così via. Il risultato è spesso infedele, indecoroso, sorprendente, ma assolutamente vertiginoso.




12) Lydia Davis – The Collected Stories of Lydia Davis (Picador, 2009)
Lydia Davis è la prima moglie di Paul Auster. La seconda caratteristica è che scrive quasi solo racconti. E ne scrive tanti. Questa edizione mette assieme quattro raccolte per un totale di 197 titoli. Alcuni sono micidialmente intellettuali, altri ineffabili, altri ancora pianamente insensati. Tra tutti non riesco a dimenticare French Lesson 1: Le Meurtre, in cui Davis, con la scusa di tenere una lezione di francese, in realtà racconta la storia di un crimine. O e il contrario? 



venerdì 27 novembre 2015

TOP16




TOP16

Da fine novembre (circa) 2014 a fine novembre di quest’anno ho letto 310 romanzi, 56 raccolte di racconti, 41 racconti sparsi, oltre a una ventina di titoli tra saggistica e varia. Lo dico un po’ per farmi bello (si pensa sempre bene di uno che legge tanto) e un po’ per avvisare il mio analista che nei prossimi giorni mi farò vivo.


Questa è la mia TOP16.

1) Bonsai (Alejandro Zambra, 2006, Cile) (ed. it. Bonsai, Neri Pozza, 2007). Nel Giardino dei sentieri che si biforcano, Borges racconta la storia del governatore Ts’ui Pên, autore di un libro e di un labirinto. Tutti pensavano che si trattasse di due cose distinte e invece erano una cosa sola. Allo stesso modo, qui, Alejandro Zambra scrive un libro e cura un bonsai. E sono una cosa sola.

2) Abril rojo (Santiago Roncagliolo, 2006, Perù) (ed. it. I delitti della settimana santa, Garzanti, 2008). Vedi

3) The Haunted Hikikomori (Lawrence Pearce, 2011, Inghilterra). Vedi

4) Elena sabe (Claudia Piñeiro, 2006, Argentina). Vedi

5) Dept. of Speculation (Jenny Offill, 2014, USA) (ed. it. Sembrava una felicità, NNE, 2015). Vedi

6) Luna caliente (Mempo Giardinelli, 1983, Argentina) (ed. it. Calda luna, Rizzoli, 1987). Vedi

7) El amante de Janis Joplin (Élmer Mendoza, 2001, Messico). Vedi

8) Beautiful Ruins (Jess Walter, 2012, USA) (ed. it. Ricorda di non dimenticarmi, Newton Compton, 2015). Tra l’Italia anni ’60 (zona Cinque Terre) e l’America di oggi (zona Hollywood), Walter gioca sporco. Voglio dire, vecchio come sono, volete ancora che mi commuova a leggere un libro? Walter c’è riuscito. (P.S. Ma chi fa i titoli delle versioni italiane? Il figlio di Bossi?)

9) Blackout/All Clear (Connie Willis, 2011, USA). Un romanzo fiume (anzi due). Ma Connie Willis può scrivere quel che vuole. I suoi viaggi temporali sono una delizia. Ogni volta che apro un suo libro è come tornare a casa. Ogni volta che lo chiudo mi dispiace sempre un po’.

10) La muerte lenta de Luciana B. (Guillermo Martínez, 2007, Argentina) (ed. it. La lenta fine di Luciana B., Mondadori, 2010). Vedi

11) Maten al léon (Jorge Ibargüengoitia, 1969, Messico) (ed. it. Ammazzate il leone, Feltrinelli, 1984). Vedi

12) Le mystérieux Docteur Cornelius (Gustave Le Rouge, 1912-13, Francia). Vedi

13) Elect Mr. Robinson for a Better World (Donald Antrim, 1993, USA) (ed. it. Votate Robinson per un mondo migliore, Minimum Fax, 2012). Una distopia. Ma Antrim più che distopico è dispotico. Decide lui quel che vuol farti sapere del suo mondo di fantasia. Quel che vuol farti soltanto intravedere. E quel che temi che sia vero e ti sembra troppo orribile, ma è vero. In questo romanzo non decidi nulla, neppure quel che si mangia. Mangiano tutti soltanto pesce.

14) Fup (Jim Dodge, 1983, USA) (ed. it. Fap [sic!], Rizzoli, 1986). Vedi

15) The Lust Lizard of Melancholy Cove (Christopher Moore, 1999, USA) (ed. it. Sesso e lucertole a Melancholy Cove, Elliot, 2010). Vedi

16) Dear Committee Members (Julie Schumacher, 2014, USA). È un libro fatto di tutte e sole lettere di raccomandazione scritte da un annoiato, divertentissimo, smaliziato professore universitario americano. La Schumacher prende un genere minore (la lettera di raccomandazione) e lo trasforma in vera letteratura. Un divertissement, una prova di forza, un pezzo di bravura.


Mancano dall’elenco The Goldfinch di Donna Tartt e Perfidia di James Ellroy perché li ho letti prima di novembre 2014. Manca anche Purity di Jonathan Franzen perché non ho ancora finito di leggerlo. E manca pure Preparation for the Next Life di Atticus Lish ed è un peccato perché un po’ mi aveva illuso. Lei è un’immigrata clandestina, cinese e pure musulmana. Lui è un reduce da una delle ultime guerre e per dormire prende tranquillanti. Il libro parte bene. Ogni frase è carica di tensione. E questo perché “ogni parola conta” (come direbbe Gordon Lish). Peccato che poi Atticus si perda in interminabili descrizioni di avvenimenti di nessuna rilevanza. Le sue passeggiate per New York sono in tempo reale. Se durano venti minuti, ci vogliono venti minuti a leggerle. Quando si ferma davanti a un muro ci tiene a trascrivere tutte le frasi che ci stanno scritte sopra. Io me l’immagino Atticus, col suo taccuino, davanti al muro, che le copia coscienziosamente e pensa con un sorriso da gatto Felix: “Queste le metto nel libro”. Peccato che non vogliano dire nulla. Dobbiamo aspettare trecento pagine circa perché succeda finalmente qualcosa (il figlio della padrona di casa prende a botte una prostituta).
Atticus Lish è il figlio di Gordon Lish, il celebre, dittatoriale, insopportabile, geniale editor americano. L’editor di Don DeLillo (tra gli altri), ma soprattutto l’uomo che ha trasformato Raymond Carver nello scrittore Raymond Carver. Una potenza nell’editoria statunitense. Atticus (il nome viene dal protagonista del Buio oltre la siepe) giura di non aver sfruttato in nessun modo l’influenza del padre per arrivare a pubblicare. Possiamo credergli. Se solo Gordon Lish ci avesse messo le mani, l’avrebbe ridotto della metà. Il romanzo alla fine non è brutto, ma papà Gordon ne avrebbe fatto un capolavoro.

lunedì 22 giugno 2015

Libri letti ultimamente RAM-RON



RAM-RON

Ramírez, Sergio
Catalina, Catalina (racconti, 2001) – La fugitiva (2011)

Ci sono politici che hanno la velleità di fare gli scrittori (disgraziatamente Veltroni) e scrittori che diventano vice-presidenti del Nicaragua ai tempi del Frente Sandinista. E questo è il caso di Sergio Ramírez. La raccolta di racconti Catalina, Catalina, dà l’idea di uno scrittore solido e affidabile. La fugitiva conferma l’impressione di solidità. Peccato che sia un libro intimamente sbagliato. La storia è vagamente ispirata a un personaggio realmente esistito (la scrittrice costaricense Yolanda Oreamuno) che, dopo aver abbandonato il paese, muore ancor giovane in Messico, senza peraltro aver lasciato tracce indelebili nella letteratura mondiale. Ramírez finge (o almeno il suo protagonista finge) di andare a intervistare tre vecchie amiche della protagonista. Il problema è che queste tre ottuagenarie non parlano mai come se avessero una voce propria, ma parlano tutte con la voce dell’autore ovvero parlano come se stessero scrivendo un libro. Non appena s’affaccia un qualche personaggio, quelle s’affannano a dire tutto di lui, della sua ascendenza, della discendenza, del mestiere dello zio, della malattia della sorella minore, della casa in cui abitava e dell’architetto che aveva costruito quella casa e che ora era morto, come tutti sanno. Di fatto quello che espongono è il lavoro di documentazione che Ramírez ha lodevolmente fatto prima di cominciare a scrivere il libro. Però anche lui deve capire che metterlo in bocca pari pari a tre vecchie rimbambite è un’operazione più che maldestra. Sarà che io non ricordo neppure cos’ho mangiato a cena ieri sera, ma l’interminata memoria e la sicurezza nell’eloquio delle tre babbione sono un buon esempio di come non si scrive un romanzo.


Revert, Matthew
How to Avoid Sex (2012) – Basal Ganglia (2013)

L’australiano Matthew Revert è uno scrittore surreale. Frase che effettivamente non vuol dire nulla, quindi provo a spiegarmi. Revert prende una situazione, la svuota di ogni connotazione possibile e la presenta nuda e cruda al lettore. Concentration Tongue è un racconto che parla di una dipendenza. Revert avrebe potuto scegliere il gioco, la droga, il sesso, la cioccolata, internet, l’alcool o quello che vi pare. Avremmo avuto un racconto qualunque. Il personaggio di Revert invece scrive compulsivamente la parola shoes. Perde il lavoro per quello, perde gli amici, si rovina la vita, ma non può fare a meno di scrivere senza tregua la parola shoes. Lo stesso capita con How to Avoid Sex. Qui il problema è una relazione sessual-sentimentale a cui il protagonista non vuole cedere perché la ritiene repellente e immorale. Anche qui le possibilità erano varie (e tutte ampiamente esplorate in letteratura). Poteva trattarsi di una storia tra due persone dello stesso sesso, tra un minorenne e un adulto, tra un umano e un animale o tutto quel che può venirvi in mente. Revert sceglie la relazione tra un uomo e una sedia, visto che lui/lei (chair in inglese è neutro) gode se qualcuno le/gli si siede sopra. Lo so cosa state pensando. Che Revert è uno scrittore cerebrale. Effettivamente proprio in un cervello si svolge l’altro suo romanzo, Basal Ganglia. Ingrid e Rollo hanno deciso di ritirarsi dal mondo e si sono costruiti un rifugio/fortino strutturato esattamente come un cervello umano. Però a questo punto posso anche dirvi che la cerebralità di Revert è il male minore. Il problema vero è che la misura del romanzo non fa per lui (molto meglio i racconti). Revert ha delle buone idee, ma non le articola più di tanto in una trama. Il che, detto in italiano, significa che Basal Ganglia, con le sue cento e qualcosa pagine appena, è una palla mortale.


Ribas, Rosa
Entre dos aguas (2007)

Sarà che piove fitto a Francoforte. Sarà che la protagonista è un commissario della polizia tedesca (potete immaginare l’allegria). Sarà che la protagonista si chiama Cornelia Weber-Tejedor (ovvero Cornelia Tessitore Tessitore) ed è impegnata a far dimenticare le sue origini parzialmente latine per dimostrare a tutti di essere una tedesca affidabile e produttiva. Sarà che lei e i suoi collaboratori sono una banda d’incapaci da avanspettacolo (prima di un interrogatorio si riuniscono per decidere quali domande fare e ne compilano una lista e alla fine commentano che in fondo sono le solite domande che si fanno sempre in quei casi). Sarà che m’ha preso male fin dall’inizio. Però dovessi dire che vi consiglio di leggere i libri della catalana Rosa Ribas, attualmente residente in Germania, vi direi una bugia grossa come una casa.


Roncagliolo, Santiago
Abril rojo (2006) – Memorias de una dama (2009) – Oscar y las mujeres (2013)

Ma quant’è bravo il peruviano Santiago Roncagliolo! Memorias de una dama tratta di un aspirante scrittore che riceve l’incarico di scrivere le memorie di una ricca signora. Mettici le reticenze della donna, mettici i risultati delle sue ricerche personali tra Cuba e la Repubblica Dominicana, mettici il fatto che lui è squattrinato e per campare sta scrivendo anche un libro ambientato in Amazzonia (luogo in cui peraltro non ha mai messo piede), aggiungi che Roncagliolo è davvero bravo a scrivere, il risultato è che questo romanzo è una vera delizia. Sfortuna vuole che sia uscito solo in Spagna e poco più. Le vicende della dama adombrano infatti situazioni e personaggi reali i quali ultimi hanno pensato bene di denunciare Roncagliolo e di bloccare l’edizione del suo libro in quasi tutti i paesi del mondo. Oscar y las mujeres è il più debole dei tre perché è la storia di un autore di telenovelas e dei suoi guai personali che naturalmente s’intrecciano con le vicende della finzione. Ma definitivamente non è La tia Julia y el escribidor, purtroppo. Il più riuscito dei tre, però, è Abril rojo: la storia di un uomo ligio al dovere e ai regolamenti che viene spedito in provincia a far parte di una commissione elettorale in una zona dilaniata dalla guerriglia. Peccato che lui attraversi la scena come un Mr. Magoo peruviano, come un uomo caduto sulla Terra, come un alieno proveniente dal pianeta Qo’noS. Non si accorge di niente. Non capisce mai niente. E’ cieco e sordo. Un vero genio dell’incoscienza. Un gran bel libro.

lunedì 8 giugno 2015

Libri letti ultimamente PIÑ-QIU



PIÑ-QIU


Piñeiro, Claudia
Tuya (2005) – La viuda de los jueves (2005) – Elena sabe (2006) – Las grietas de Jara (2009) – Un comunista en calzoncillos (2013)

Piñeiro il botto da noi lo fa con Betibú (2011), ma in Argentina era famosa anche da prima. Piñeiro parla della medietà della classe media (Tuya), della povertà umana dei nuovi ricchi (Las grietas de Jara) e di quella dei nuovi ricchi quando ritornano poveri (La viuda de los jueves). Piñeiro parla dell’Argentina contemporanea. Solo una volta ricorda i tempi bui del passato (Un comunista en calzoncillos), ma lo fa con un libro per metà inconcludente e per metà raffazzonato di materiali non elaborati. Come se non avesse fatto in tempo a finirlo. O non ne avesse avuto voglia. O come se l’avesse scritto solo per rispettare i termini di un contratto. In ogni caso Piñeiro è brillante, è rapida, spesso sorprendente. A volerle trovare un difetto è un po’ leggerina, ma è comunque una goduria da leggere.
E poi c’è Elena sabe.
Elena è vecchia e ha il Parkinson. Elena ha una figlia, l’aveva. Ma quella s’è impiccata a una corda nel campanile della chiesa e l’ha lasciata sola al mondo. Ma Elena è sicura che le cose siano andate diversamente. Anche se la polizia continua a sostenere la tesi del suicidio, lei lo sa che sua figlia aveva paura dei fulmini e che non sarebbe mai andata vicino al campanile in un giorno di pioggia. Elena sa che c’è soltanto una persona, un’amica della figlia, che possa aiutarla a scoprire la verità. Ma sta dall’altra parte della città e per fare il viaggio ci vogliono ore, treni, taxi. Elena si ripete incessantemente i nomi delle strade da raggiungere perché ha paura di perdersi in una zona della città che non conosce. Elena soprattutto ha paura che il proprio corpo la tradisca. È per questo che prende le pillole. Tutto il romanzo è scandito dalle pillole che Elena prende e che le danno, ognuna, qualche ora di respiro dal Parkinson, ancora qualche ora di controllo sul proprio corpo. E dopo un po’ ti domandi se finiranno prima le pillole o prima il viaggio. E poi ti domandi se anche tu ce la farai ad arrivare alla fine del libro o se avrai bisogno di qualche pillola per sopportarlo. Perché anche a te tremano le mani. Anche se il libro che stai leggendo non è di carta e per andare avanti ti basta toccare lo schermo dell’e-reader. Lo sai che quando tocchi lo schermo ti tremano le mani. E poi quando arrivi alla fine della storia e scopri la verità, ti tremano le mani di nuovo.


Pouy, Jean-Bernard
Plein tarif (1994) – 54X13 (1996) – Train perdu, wagon mort (2003) – Nus (2007) – Mes soixante huîtres (2008) – Une brève histoire du roman noir (2009) – Samedi 14 (2011)

Il vero nemico di Jean-Bernard Pouy è la sua straordinaria facilità di scrittura. Lo mandano a seguire il Tour de France e lui se ne esce subito con un romanzetto (inutile) intitolato 54X13. Come trova due pomeriggi liberi lui si mette lì e ti elenca i suoi amori cinematografici (Je hais le cinéma, 2004). Se gli lasci due o tre ore di tempo lui non si tira indietro e scrive Mes soixante huîtres, sulla sua condizione di ex-soissantuitarattardé (ma il termina suona meglio in italiano: ex-sessantottardo). Io continuo a preferire i suoi primi libri, quelli pubblicati per la Série noire di Gallimard o per Baleine. Ma anche in tempi più recenti ha scritto delle cose interessanti. Samedi 14, per esempio è costruito bene e non è banale. A differenza di Nus che è una vera sciocchezza.
L’estrema prolificità pouyana è uno dei motivi per cui non ha mai avuto grande risonanza in Italia. L’altro motivo è che Pouy è uno che ci perde in traduzione. Pouy usa spesso l’argot. Un argot che non è più un gergo criminale e non ha nulla di regionalistico, che è naturalmente colloquiale, è quasi una seconda lingua, ma non ha equivalenti in italiano. E dunque pif non è il naso, tif non sono i capelli, pinard non è il vino. E roupiller non è dormire, né sonnecchiare, né schiacciare un pisolino, assopirsi, fare la pennichella, cadere nelle braccia di Morfeo, farsi un sonno, abbioccarsi, fare delle zeta. Roupiller è roupiller. Non c’è rimedio.


Qiu, Xiaolong
Death of a Red Heroine (2000) – A Loyal Character Dancer (2002) – When Red Is Black (2004) – A Case of Two Cities (2006) – Red Mandarin Dress (2007) – The Mao Case (2009) – Don’t Cry, Tai Lake (2012) – Enigma of China (2013)

Leggendo i libri di Qiu Xialong si imparano un sacco di cose. Il suo eroe, in realtà, da grande voleva fare il poeta o almeno il traduttore (ha tradotto in cinese La terra desolata di T. S. Eliot), poi il partito gli ha imposto di fare l’ispettore di polizia e lui ha ubbidito. Ma proprio per questo ogni due pagine cita qualche verso della poesia classica cinese. E ogni cinquanta pagine ci mette anche dei versi scritti in proprio. Ora, io non so niente di poesia classica cinese, però considerate il poeta Niu Xiji quando ricorda il momento in cui è stato abbandonato dalla donna amata. E tutto quello che ricorda è la sua gonna verde. E così scrive: “Con la tua gonna verde ancora in mente, ovunque / mi trovi, calpesto l’erba con leggerezza”.
Leggendo i libri di Qiu Xialong si imparano un sacco di cose. Per esempio che quel che offrono i ristoranti cinesi in Occidente è solo la centesima parte di una tradizione culinaria inesauribile. L’ispettore Chen Cao, ogni tre pagine, quando non cita passi della poesia cinese, si ferma a mangiare nei posti più impensati e alle ore più imprevedibili e ti racconta storie infinite di granchi, teste di carpa, cross-bridge noodles, senza farsi mancare nulla. Neppure la “cena crudele” quella col brodo di tartaruga viva e col cervello di scimmia mangiato a cucchiaiate direttamente dal cranio dell’animale.
Leggendo i libri di Qiu Xiaolong si imparano un sacco di espressioni (in inglese, lui è scappato dalla Cina dopo Tienanmen e scrive in inglese). Per esempio “big buck” (sono i nuovi ricchi), HC (che sta per “high cadre”), “piccola segretaria” (l’amante del capo), K-girl (è la ragazza karaoke, ma non necessariamente una prostituta). E soprattutto “fare nuvole e pioggia” che è la versione cinese, un tantino più sofisticata, di templar. Che è l’equivalente cubano del verbo coger. Che a sua volta è l’espressione che gli argentini usano... ma questa devo avervela già detta. 

sabato 30 maggio 2015

Libri letti ultimamente ORS-PIL



ORS-PIL


Orsi, Guillermo
Sueños de perro (2004)

Guillermo Orsi è considerato uno dei tre maggiori esponenti della novela negra argentina contemporanea (gli altri sono Ernesto Mallo e Raul Argemi). E Sueños de perro è effettivamente un buon libro. Un detective involontario (il tassista Sebastián Mareco) cerca di scoprire chi ha ucciso il suo amico El Chivo Robirosa, ex-giocatore di rugby diventato ricco e famoso giocando in Italia (sic!). Passiamo in mezzo a narcotrafficanti, malviventi vari, abbiamo una prostituta dal cuore d’oro e un poliziotto spregevole, ma onesto. Tutto regolare. C’è una sola cosa che non mi convince. Ogni volta che si presenta l’occasione, Orsi cerca di farti sapere quel che pensa del mondo, della situazione delle nostre scuole, della viabilità cittadina, del periodo della dittatura, del periodo della post-dittatura ecc... Il che è lecito. Il problema è che sembra sempre un po’ uno sfogo che solo a tratti s’amalgama col resto. Orsi ce l’ha col mondo, ma non è detto che sia interessante saperlo. Come direbbero gli inglesi: “Guillermo, your objections are duly noted”. Che in italiano si traduce con “abbiamo capito, ma non ce ne frega nulla”.


Padura, Leonardo
Pasado perfecto (1991) – Vientos de Cuaresma (1994) – Adios, Hemingway (2001)

Per leggere i libri del cubano Leonardo Padura conoscere il castigliano e fumare sigarette può essere utile, ma non basta. Solo chi fuma sigari, infatti, può capire cos’è una breva, un puro, cos’è una capa, una marquilla, un Davidoff 5000 Gran Corona da 14,2 centimetri, cosecha de Vueltabajo, 1988. Il solo inconveniente è che il fumatore di sigari è il maggiore Rangel. Mentre il protagonista invece è il suo sottoposto, il tenente Mario Conde, uno che si fa un litro di rum a sera, due duralgina la mattina e che la notte la passa in mezzo agli incubi. E fuma due stupidissimi pacchetti di sigarette al giorno, maledizione! A parte questo è simpatico e l’ambientazione è ovviamente da favola. Un’altra cosa che s’impara leggendo i libri di Padura è il verbo templar, che è l’equivalente del verbo coger. Che a sua volta è l’espressione che gli argentini usano al posto di follar. Che è quel che si dice in Spagna quando si vuole dire... insomma avete capito, no?


Pearce, Lawrence
The Haunted Hikikomori (2011)

Hikikomori è il termine che i giapponesi usano per indicare quelli che si rinchiudono in casa e non mettono il naso fuori neppure per comprare la pizza (se la fanno consegnare a casa). Jared è uno di questi, è un “murato vivo”, uno che compra tutto via internet e che vive da solo con l’unica compagnia di un’amica immaginaria. Bionda, l’amica. E non mora come Sara, la donna che l’ha lasciato e poi è morta e che continua ad affiorare per casa come un rimosso esorbitante, che apre e chiude la doccia a sproposito, che si dimentica aperte le finestre, che lascia tracce di passi umidi uscendo dalla doccia. Tutto questo va bene. Però, uno arriva a metà libro e si domanda come possa andare avanti una storia così. Bella, intelligente, scritta bene, ma basta! A quel punto, a metà libro circa, Jared si prende una coltellata nella pancia (reale, non immaginaria) ed è lì che comincia la storia di Melissa. Una che insegna arpa all’Accademia, ma appena può torna a casa, nella sua nuova casa, perché anche lei ha qualche disturbo della personalità, anche lei vive sola con un amico immaginario. Anche a lei capita di aprire la doccia a sproposito e di lasciare le sue impronte umide sul pavimento. Se leggendo questo riassunto che v’ho fatto non vi sono ancora venuti i brividi, vuol dire che mi sono spiegato male.


Piljean, André
Un chien écrasé (1953)

Prima di Simonin e di Le Breton, André Piljean già scriveva di malviventi del milieu, di bourres (sono i poliziotti), di flingues (sono le armi) ecc... Un chien écrasé è la storia di un vendicatore riluttante. François Traschi esce dopo sette anni di galera e scopre che gli rubato la donna e anche il bottino (le pognon, le magot), ma non sembra così ansioso di farsi giustizia. Poi, sapete come vanno queste storie... A Cocteau piacevano i romanzi di Piljean. Diceva che era uno di quegli eroi oscuri della letteratura, convinti di scrivere della spazzatura di serie B, che invece proprio in quella serie B si dimostrano maestri. “...[C]royant tirer à la ligne pour gagner leur croûte, [ils] font merveille sans le savoir”, scrive. E fa pure l’esempio di Fantômas. “Les auteurs [Allain et Souvestre] voulaient convaincre, Apollinaire et moi, de ne pas lire ces sottises, écrites de la main gauche. Hélas, leurs oeuvres, écrites de la main droite, ne valaient rien”. Subito dopo dice una sciocchezza colossale: “[Piljean] avait été stupéfait par mon admiration. Il est mort à vingt-huit ans. Je l’ai appris par une lettre de sa femme. Il avait murmuré à son lit de mort: «Previens Jean Cocteau»”. Naturalmente Piljean è morto a quarantadue anni e non a ventotto, ma come fai a togliere ai francesi la retorica del genio strappato anzitempo alla gloria e alla cultura? E poi com’è possibile che, nel parlare di uno scrittore che ti piace, l’unica cosa che ci tieni a dire è che in punto di morte quello ha pensato a te? Plus narcissique que ça, tu meurs!

venerdì 29 maggio 2015

Libri e traduzioni di libri


Questo blog si occupa di libri e di traduzioni di libri. Il suo titolo viene da The Moon and Sixpence (1919, La luna e i sei soldi) di Somerset Maugham. La frase è questa:

We are like people living in a country whose language they know so little that, with all manner of beautiful and profound things to say, they are condemned to the banalities of the conversation manual. Their brain is seething with ideas, and they can only tell you that the umbrella of the gardener's aunt is in the house.

Siamo come chi abiti un paese di cui conosce così poco la lingua da essere condannato, con tutte le cose belle e profonde che ha da dire, alle banalità di un manuale di conversazione. La sua mente ribolle di idee, ma tutto quello che riesce a dire è che l'ombrello della zia del giardiniere è nella casa.

La sensazione è tipica di chi traduce per mestiere. L'originale pullula di ambiguità e di risonanze, ma il nostro povero italiano suona sempre come: “saprebbe indicarmi la via più breve per raggiungere la locale stazione ferroviaria?”

Il problema del resto non sta nell'italiano e Maugham non sta parlando di traduzioni. Sta parlando di tutte quelle volte che, per quanto uno possa aver chiaro un concetto, sembra non ci sia modo di trovare le parole esatte per dire proprio quella cosa lì.

La stessa cosa di cui si lamenta Giacomo il fatalista.
Ah! Si je savais dire comme je sais penser! Mais il est écrit là-haut que j'aurais les choses dans ma tête, et que les mots ne viendraient pas.

E che sembra affliggere Maddy in All That Fall di Beckett, almeno a detta di Mr Rooney.
Do you know, Maddy, sometimes one would think you were struggling with a dead language.

Delle volte sembra proprio di lottare con una lingua morta. Come se ti avessero chiesto di tradurre in latino un testo di elettrodinamica quantistica o il libretto d'istruzioni di una lavatrice o anche soltanto il termine “cassaintegrato”.

Che, sia detto per inciso, in latino suona come: operarius publica pecunia adiutus (Lexicon recentis latinitatis, Volumen I, A-L, p. 144, Libraria Editoria Vaticana, 1992)

sabato 23 maggio 2015

Libri letti ultimamente MEN-OFF



MEN-OFF

Mendoza, Élmer
El amante de Janis Joplin (2001) – Balas de plata (2008)

Conoscere il castigliano per leggere i romanzi del messicano Mendoza è utile, ma non basta. Per andare avanti bisogna familiarizzarsi almeno con una dozzina di espressioni tipo chola, joto, merequetengue, ¿Qué onda?, ¡Òrale!  e Ahí nos vidrios cocodrilo. Ma una volta pagato lo scotto, ci si diverte come dei matti. Dei due, Balas de plata è un po’ più convenzionale, ma El amante de Janis Joplin è una vera delizia. Il protagonista è un perfetto cretino che guarda il mondo a bocca aperta (bocachula, lo chiama il comandante Mascareño), ma ha anche un braccio formidabile. Con un sasso può far fuori chiunque, per esempio Rogelio, il fidanzato di Carlota Amalia. Con un palla da baseball è un mago, tanto che i Dodgers se lo portano a New York. Ed è lì che, una sera, accanto al Chelsea Hotel, incontra Janis Joplin che gli chiede: “Ma tu non sei Chris Christofferson?” e poi se lo porta a letto. Tornato in Messico (i Dodgers lo scaricano subito), deve affrontare i parenti di Rogelio che vogliono vendicarsi. Dalla sua parte ha soltanto un cugino guerrigliero (El Chato) e un amico d’infanzia narcotrafficante (El Cholo). Per il resto David non ha problemi, non ha pensieri, non ha testa. Ha un braccio terrificante e un solo sogno: tornare a New York, ritrovare Janis Joplin e sposarla.


Monterroso, Augusto
Obras completas y otros cuentos (1959) – La oveja negra y demás fabulas (1969) – Viaje al centro de la fabula (1981) – La letra E: fragmentos de un diario (1987)

Disgraziatamente non c’è abbastanza spazio in questo blog per spiegare la grandezza di Augusto Monterroso. Se mi lasciate un pomeriggio di tempo posso provare a raccontarvi la storia di Leopoldo Ralón, lo scrittore munizioso, che in tutta la vita non arriva a scrivere mai una riga o quella dello scarafaggio sognatore (sognava di essere Franz Kafka). Se mi date in bianco trecento cartelle di spazio potrei provare a dirvi perché Onis è un assassino (anche se il palindromo suona solo nell’originale Onis es asesino). Monterroso è celebre per la brevità dei suoi racconti (un precursore della literatura portátil di Vila-Matas) e io la sto facendo lunga. Il suo racconto più famoso dice così: Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì. È il più breve della storia della letteratura. E io la sto facendo lunga, lo so. Ma io non sono Augusto Monterroso.
Nel suo libro di memorie Permiso para vivir, il peruviano Alfredo Bryce Echenique racconta un episodio troppo bello per essere vero. Un giorno si trova a parlare con Monterroso di Cortázar e vede che la faccia di quello si sbianca all’improvviso. “Ma perché, Cortázar esiste veramente? E dire che tutto quello che ho fatto in vita mia non è stato altro che plagiare Cortázar!”. La storia non finisce qui. Un anno dopo Bryce Echenique è a Parigi a casa di Cortázar che è in procinto di partire per il Messico. “Allora devi assolutamente andare a trovare Augusto Monterroso”, gli dice. E la risposta di Cortázar è: “¿Monterroso? Pero Monterroso existe? (...) ¡Pero si lo único que he echo yo en mi vida es plagiar a Monterroso!”. Non so se la storia sia vera. Non sono neppure sicuro dell’esistenza reale di Augusto Monterroso o di Julio Cortázar. O di Alfredo Bryce Echenique, se è per questo. Del resto non so neppure chi sono io. Quel che so per certo è che non sono Augusto Monterrroso. Disgraziatamente.


Moore, Christopher
Practical Demonkeeping (1992) – The Lust Lizard of Melancoly Cove (1999)

Refreshing. Non so come altro dirlo. E nemmeno come tradurlo. Ma leggere i libri di Christopher Moore è un’esperienza refreshing. È come se uno, in una giornata afosa piena di libri pesanti e supponenti, si trovasse a percepire un lieve refolo di vento. Leggero, per carità, leggero, ma emozionante. Moore introduce i suoi elementi fantasy (e dio solo sa se odio il fantasy) come se fossero dei dati di fatto, degli eventi quotidiani. Certo, se uno è un millenario mostro marino, ci sta che debba mangiare ogni tanto qualche essere umano. Questo almeno pensa Molly Michon. E voi la conoscete Molly, vero? L’avrete vista di certo nel ruolo di Kendra in Warrior Babe of the Outland. Vi ricorderete il suo bikini di pelle nero, il collare con le borchie a punta e la spada. Oppure l’avrete vista in Outland Steel: Kendra’s Revenge Il film che inizia con cinque minuti di nudo gratuito con Molly che fa la doccia, nonostante abiti in un pianeta del tutto sprovvisto d’acqua. Ma sì, Molly Michon, quella che adesso vive in un camper e riceve un assegno dallo Stato in quanto schizofrenica conclamata.
E questo non è che l’inizio. Ho altri dodici romanzi di Christopher Moore da leggere. Sono lì che mi aspettano e io non ho fretta. Ho solo una parola da dirvi: refreshing.


Offill, Jenny
Dept. of Speculation (2014)

È la storia di una scrittrice alle prese con un secondo libro che non ne vuol sapere di venir fuori. Una che vorrebbe diventare una art monster, cioè una donna che passa sopra a tutto e tutti pur di realizzare i propri sogni artistici. E che invece banalmente si sposa, fa una figlia e dopo un po’ scopre pure che il marito la tradisce. Punto. “Se qualcuno mi avesse chiesto di leggere un libro con una trama del genere mi sarei rifiutata,” dichiara la stessa Offill. La stessa cosa che ho pensato io quando ero già a metà, anche se a quel punto, perso per perso, ho pensato di finirlo. E ho fatto bene.
C’è gente che con la propria facilità di tessitura nasconde la povertà della sua stoffa. C’è gente che, se non scrive trecento pagine almeno, non si sente soddisfatta, Neanche la pagassero a cottimo. E c’è gente che sputa sangue, sudore e lacrime per ogni singola frase. Offill dice che quel che ha cercato di fare è stato “to say the most with the least”. Di dire il massimo con il meno possibile. Sia benedetta Offill e la sua fatica.
Sia Elaine Blair su The New York Review of Books che James Wood su The New Yorker trovano il modo di citare David Markson. Il trait d’union sarebbe la frammentarietà e, a volte, l’eterogeneità dei frammenti in questione. Con la differenza però che quelli di Markson sembrano i diari privati, non elaborati, crudi, di uno scrittore che sta preparando un libro. I materiali (anche eterogenei, anche frammentari) di Offill si affacciano, invece, nel suo libro già digeriti, frollati, assimilati, grazie a un gran lavoro di gomiti e di scalpello. E con un mucchio di midnight oil bruciato nell’impresa.