TOP12 2016
La cosa strana è che quest’anno ho letto molto più su carta
che sull’e-reader (in un rapporto di
circa due a uno). Le vecchie abitudini non muoiono mai. Per peggiorare le cose,
quando leggo un libro in elettronico che mi piace molto, poi finisce che lo ricompro
su carta. Perché voglio tenerlo lì. Toccarlo. Al punto che per certi autori ho
tutto doppio: una cartella con i file
elettronici e uno scaffale con le file di libri. Che ci volete fare, ognuno ha
le sue ossessioni.
1) Ben Marcus – The
Flame Alphabet (Granta, 2012)
Di fatto è un romanzo di fantascienza, anche se
non sembra. L’idea è che gli adulti diventino violentemente allergici alla voce
degli adolescenti. Poi la malattia degenera. Pure la scrittura diventa fonte di
sofferenze continue. Anche soltanto la vista di una parola scritta diventa
micidiale. L’unica soluzione è partire, lasciare le città in mano ai ragazzini.
Ben Marcus è uno scrittore di scrittori. Basta leggere quel
che dicono di lui Michael Chabon, Rick Moody, Tom McCarthy e Jonathan Safran
Foer. Forse da grande diventerà un grande scrittore tout court.
2) Ben Lerner – Leaving
the Atocha Station (Coffee House Press, 2011) (ed. it. Un uomo di passaggio, Neri Pozza, 2012)
Un personaggio di Purity (un mediocre romanzo inutilmente
lungo) si domanda perché tutti i nuovi scrittori si chiamino Jonathan (Franzen,
Lethem, Safran Foer). La domanda è sbagliata. Tutti i nuovi scrittori si
chiamano Ben (Marcus, Lerner).
Un giovane aspirante poeta riceve una prestigiosa borsa di
studio per andare a Madrid a studiare il rapporto tra letteratura e guerra
civile spagnola. Viene accolto benissimo. Tutti sono pronti a dargli consigli
su cosa leggere e cosa ricercare. Peccato che lui non sappia neppure di cosa
stiano parlando. Il suo spagnolo è precario, la sua cultura pure (tra le altre
cose è convinto che Ortega y Gasset sia due persone diverse, come Deleuze e
Guattari). Il suo rapporto con l’arte e con la poesia è inafferrabile. Il fatto
che Lerner abbia scritto in precedenza tre libri di poesie e che abbia effettivamente
goduto di una borsa Fullbright di un anno a Madrid non deve trarre in inganno.
3) Georges Simenon – Les
Pitard (Gallimard, 1935, scritto nel 1933) (ed. it I Pitard, Mondadori, 1937)
Sto leggendo tutti i non-Maigret in
ordine più o meno cronologico. Ne ho già letti una ventina, ma il cammino è
lungo. Se alla fine ho scelto questo Les
Pitard è perché si svolge in mare e Simenon non ha uguali quando può
viaggiare per mare con un capitano grosso, irascibile, impenetrabile,
incomprensibile, taciturno, umanissimo, insomma un personaggio che trasuda maigrettitudine.
4) Paul Auster – Oracle
Night (Henry Holt, 2003) (ed. it. La
notte dell’oracolo, Einaudi, 2004)
Sto leggendo tutto Paul Auster, me ne mancano quattro o
cinque. Auster è un cerebrale (non è un segreto che gli piaccia Beckett), è un
involuto. Uno che comincia una storia per raccontare la storia di uno che
racconta una seconda storia, e in quella seconda storia ci troviamo ad
ascoltare qualcuno che ne racconta una terza, che è poi il libro che sta
scrivendo e che noi stiamo leggendo. E a quel punto non c’è più ritorno. Tra
imprevedibili mosse del cavallo, timidi e delicati pas-de-deux, stravolgimenti inconsulti e stranianti, svianti mise en abyme, siamo presi dall’ebrezza
della grande letteratura. E ci perdiamo.
5)
Jeff Vandermeer, Mark Roberts (a cura di) – The
Thackery T. Lambshead Pocket Guide to Eccentric & Discredited Diseases (Night
Shade Books, 2003)
Tutto
comincia quando Vandermeer e Roberts mandano a una dozzina di amici scrittori
l’invito a redigere un finto rapporto medico su finte malattie. In breve tempo
la cosa scappa loro di mano. Gli autori diventano 58 (tra questi Michael Moorcock,
Neil Gaiman, Rhys Hughes), il libro raggiunge le 320 pagine. Non tutti i
contributi sono allo stesso livello. Il gioco stesso rischia alla lunga di
diventare ripetitivo. Però considerate questo: considerate il caso della “Malattia
delle città fantasma” presentato dal Dottor Nathan Ballingrud. Una malattia che
fa sì che le sue vittime si trasformino in città popolate da fantasmi. Nel
libro troviamo non solo la versione inglese del rapporto, ma anche il testo
originale in spagnolo (in realtà tradotto da Gabriel Mesa e presentato da un
certo Diego Funes), testo che era stato pubblicato per la prima volta in
Argentina nella raccolta Guida tascabile
alle malattie metafisiche, curata nel 1977 da Jorge Luis Borges. Non so se
mi spiego.
6)
Don DeLillo – Great Jones Street
(1973) (Great Jones Street, Einaudi,
1997)
Sto
leggendo tutto DeLillo, me ne mancano cinque o sei. Ci sono degli alti e dei
bassi. Underworld è un grande libro. Cosmopolis o Americana un po’ meno. Quel che è costante è la qualità della
scrittura. DeLillo suona bene. Sono le parole stesse a fare l’andatura, non il
loro significato. Se le parole arrivano alla fine a costruire una trama o un
personaggio, tanto di guadagnato. In caso contrario non importa.
Great Jones
Street è
la storia di una rockstar che decide si scomparire dalla scena e quindi si
rintana in un appartamento nella strada eponima. Naturalmente tutti sanno
dov’è. Naturalmente tutti lo avvistano altrove, nei luoghi più impensati. E
tutti lo vogliono coinvolgere in qualcosa, un ritorno sul palco o un
traffico di droga. E tutto questo, non c'è che dire, suona bene.
7) Amélie Nothomb – Hygiène
de l’assassin (Albin Michel, 1992) (ed. it. Igiene dell’assassino, Voland, 2001)
Non ho ancora capito fino a che punto Nothomb mi piace. Quel
che posso dire (sono appena all’inizio, ho letto solo due romanzi e due
racconti lunghi) è che si tratta di una scrittrice solida. La faccia da
ragazzina viziata, col trucco pesante e la pelle biancastra, che spuntava dalle
sue copertine mi aveva fin qui tenuto lontano dai suoi libri. Sta di fatto che
Nothomb non è un bluff.
8)
Dany Laferrière – Comment faire l’amour
avec un nègre sans se fatiguer (VLB, 1985) (Come fare l’amore con un negro senza far fatica, La Tartaruga,
2003)
Originario di Haiti, scappato in Canada, attualmente
Accademico di Francia (al posto di Bianciotti), Dany Laferrière è un miracolo
di leggerezza. Con la vita che ha fatto avrebbe tutti i diritti di ammorbarci
con storie di sangue, di violenza, di sopraffazione ecc… E invece lo troviamo
lì, nel freddo canadese, a battere sui tasti di una macchina da scrivere che
era stata di Chester Himes e che naturalmente non è mai stata di Chester Himes.
Laferrière parla di Charlie Parker, di gatti, di negritudine, di mosche, di
pompini, di India Song. Se potesse,
Laferrière parlerebbe di niente.
9) Colson Whitehead – The
Colossus of New York (2003) (ed. it Il
colosso di New York, Mondadori, 2004)
“Ci sono stanze che puzzano di diesel”, dice Tom Waits in
una sua canzone “in cui puoi riprendere i sogni di quelli che ci hanno dormito
dentro. “ (9th & Hennepin)
Whitehead fa qualcosa del genere con New York. Questa non è
una guida alla città, è una guida ai segni che lasciano le persone che
attraversano la città, che prendono la metropolitana, che arrivano e partono,
che corrono per Central Park o passano per il ponte di Brooklyn. Whitehead
descrive i luoghi, ma oltre ai luoghi materializza a parole quel che resta nell’aria
dopo che tutti se ne sono andati via.
10) Chelsea Martin – Even
Though I Don’t Miss You (Short Flight/Long Drive Books, 2013)
Il genere si chiama flash-lit. Pezzi brevi, abbozzi di
racconti, sfoghi lunghi quanto due tweet,
aforismi, prose che costeggiano pericolosamente la poesia, considerazioni acide
sul mondo e sugli uomini, battute secche.
Come per esempio: “Ieri ho visto una ragazza per strada,
lacrime scendevano lungo un viso del tutto inespressivo, bocca aperta, non
emetteva suoni, né badava ad asciugarsi le lacrime dal viso e dal collo, così
adesso so di non essere l’unica a fare una cosa del genere.”
Oppure: “Alcuni dei miei amici fanno fatica ad abituarsi al
fatto che io legga poesia al cesso e con la porta aperta, ma si vede che non
leggono il tipo di poesia che leggo io.”
11) Adam Thirlwell – Multiples
(Portobello Books, 2013)
“Cosa rimane di un testo narrativo quando passa da una
lingua all’altra?” si domanda Adam Thirlwell. Uno scrittore magari passa un
giorno intero a cercare le mot juste (Flaubert)
per vedere poi vanificata tutta la sua fatica nella traduzione. Oppure no? Per
verificare questo Thirlwell s’inventa uno stress
test, come quelli che si fanno per le banche. Prende una dozzina di
racconti e chiede a degli amici scrittori di tradurli in un’altra lingua e
quindi ad altri scrittori ancora di tradurre quelle traduzioni e così via. Il
risultato è spesso infedele, indecoroso, sorprendente, ma assolutamente vertiginoso.
12) Lydia Davis – The
Collected Stories of Lydia Davis (Picador, 2009)
Lydia Davis è la prima moglie di Paul Auster. La seconda
caratteristica è che scrive quasi solo racconti. E ne scrive tanti. Questa
edizione mette assieme quattro raccolte per un totale di 197 titoli. Alcuni
sono micidialmente intellettuali, altri ineffabili, altri ancora pianamente
insensati. Tra tutti non riesco a dimenticare French Lesson 1: Le Meurtre, in cui Davis, con la scusa di tenere
una lezione di francese, in realtà racconta la storia di un crimine. O e il
contrario?