martedì 6 dicembre 2016

TOP12 2016




TOP12 2016


La cosa strana è che quest’anno ho letto molto più su carta che sull’e-reader (in un rapporto di circa due a uno). Le vecchie abitudini non muoiono mai. Per peggiorare le cose, quando leggo un libro in elettronico che mi piace molto, poi finisce che lo ricompro su carta. Perché voglio tenerlo lì. Toccarlo. Al punto che per certi autori ho tutto doppio: una cartella con i file elettronici e uno scaffale con le file di libri. Che ci volete fare, ognuno ha le sue ossessioni.


1) Ben Marcus – The Flame Alphabet (Granta, 2012) 
Di fatto è un romanzo di fantascienza, anche se non sembra. L’idea è che gli adulti diventino violentemente allergici alla voce degli adolescenti. Poi la malattia degenera. Pure la scrittura diventa fonte di sofferenze continue. Anche soltanto la vista di una parola scritta diventa micidiale. L’unica soluzione è partire, lasciare le città in mano ai ragazzini.
Ben Marcus è uno scrittore di scrittori. Basta leggere quel che dicono di lui Michael Chabon, Rick Moody, Tom McCarthy e Jonathan Safran Foer. Forse da grande diventerà un grande scrittore tout court.




2) Ben Lerner – Leaving the Atocha Station (Coffee House Press, 2011) (ed. it. Un uomo di passaggio, Neri Pozza, 2012) 
Un personaggio di Purity (un mediocre romanzo inutilmente lungo) si domanda perché tutti i nuovi scrittori si chiamino Jonathan (Franzen, Lethem, Safran Foer). La domanda è sbagliata. Tutti i nuovi scrittori si chiamano Ben (Marcus, Lerner).
Un giovane aspirante poeta riceve una prestigiosa borsa di studio per andare a Madrid a studiare il rapporto tra letteratura e guerra civile spagnola. Viene accolto benissimo. Tutti sono pronti a dargli consigli su cosa leggere e cosa ricercare. Peccato che lui non sappia neppure di cosa stiano parlando. Il suo spagnolo è precario, la sua cultura pure (tra le altre cose è convinto che Ortega y Gasset sia due persone diverse, come Deleuze e Guattari). Il suo rapporto con l’arte e con la poesia è inafferrabile. Il fatto che Lerner abbia scritto in precedenza tre libri di poesie e che abbia effettivamente goduto di una borsa Fullbright di un anno a Madrid non deve trarre in inganno.


3) Georges Simenon – Les Pitard (Gallimard, 1935, scritto nel 1933) (ed. it I Pitard, Mondadori, 1937) 
Sto leggendo tutti i non-Maigret in ordine più o meno cronologico. Ne ho già letti una ventina, ma il cammino è lungo. Se alla fine ho scelto questo Les Pitard è perché si svolge in mare e Simenon non ha uguali quando può viaggiare per mare con un capitano grosso, irascibile, impenetrabile, incomprensibile, taciturno, umanissimo, insomma un personaggio che trasuda maigrettitudine.






4) Paul Auster – Oracle Night (Henry Holt, 2003) (ed. it. La notte dell’oracolo, Einaudi, 2004)
Sto leggendo tutto Paul Auster, me ne mancano quattro o cinque. Auster è un cerebrale (non è un segreto che gli piaccia Beckett), è un involuto. Uno che comincia una storia per raccontare la storia di uno che racconta una seconda storia, e in quella seconda storia ci troviamo ad ascoltare qualcuno che ne racconta una terza, che è poi il libro che sta scrivendo e che noi stiamo leggendo. E a quel punto non c’è più ritorno. Tra imprevedibili mosse del cavallo, timidi e delicati pas-de-deux, stravolgimenti inconsulti e stranianti, svianti mise en abyme, siamo presi dall’ebrezza della grande letteratura. E ci perdiamo.


5) Jeff Vandermeer, Mark Roberts (a cura di) – The Thackery T. Lambshead Pocket Guide to Eccentric & Discredited Diseases (Night Shade Books, 2003)
Tutto comincia quando Vandermeer e Roberts mandano a una dozzina di amici scrittori l’invito a redigere un finto rapporto medico su finte malattie. In breve tempo la cosa scappa loro di mano. Gli autori diventano 58 (tra questi Michael Moorcock, Neil Gaiman, Rhys Hughes), il libro raggiunge le 320 pagine. Non tutti i contributi sono allo stesso livello. Il gioco stesso rischia alla lunga di diventare ripetitivo. Però considerate questo: considerate il caso della “Malattia delle città fantasma” presentato dal Dottor Nathan Ballingrud. Una malattia che fa sì che le sue vittime si trasformino in città popolate da fantasmi. Nel libro troviamo non solo la versione inglese del rapporto, ma anche il testo originale in spagnolo (in realtà tradotto da Gabriel Mesa e presentato da un certo Diego Funes), testo che era stato pubblicato per la prima volta in Argentina nella raccolta Guida tascabile alle malattie metafisiche, curata nel 1977 da Jorge Luis Borges. Non so se mi spiego.


6) Don DeLillo – Great Jones Street (1973) (Great Jones Street, Einaudi, 1997)
Sto leggendo tutto DeLillo, me ne mancano cinque o sei. Ci sono degli alti e dei bassi. Underworld è un grande libro. Cosmopolis o Americana un po’ meno. Quel che è costante è la qualità della scrittura. DeLillo suona bene. Sono le parole stesse a fare l’andatura, non il loro significato. Se le parole arrivano alla fine a costruire una trama o un personaggio, tanto di guadagnato. In caso contrario non importa.
Great Jones Street è la storia di una rockstar che decide si scomparire dalla scena e quindi si rintana in un appartamento nella strada eponima. Naturalmente tutti sanno dov’è. Naturalmente tutti lo avvistano altrove, nei luoghi più impensati. E tutti lo vogliono coinvolgere in qualcosa, un ritorno sul palco o un traffico di droga. E tutto questo, non c'è che dire, suona bene.


7) Amélie Nothomb – Hygiène de l’assassin (Albin Michel, 1992) (ed. it. Igiene dell’assassino, Voland, 2001)
Non ho ancora capito fino a che punto Nothomb mi piace. Quel che posso dire (sono appena all’inizio, ho letto solo due romanzi e due racconti lunghi) è che si tratta di una scrittrice solida. La faccia da ragazzina viziata, col trucco pesante e la pelle biancastra, che spuntava dalle sue copertine mi aveva fin qui tenuto lontano dai suoi libri. Sta di fatto che Nothomb non è un bluff.






8) Dany Laferrière – Comment faire l’amour avec un nègre sans se fatiguer (VLB, 1985) (Come fare l’amore con un negro senza far fatica, La Tartaruga, 2003)
Originario di Haiti, scappato in Canada, attualmente Accademico di Francia (al posto di Bianciotti), Dany Laferrière è un miracolo di leggerezza. Con la vita che ha fatto avrebbe tutti i diritti di ammorbarci con storie di sangue, di violenza, di sopraffazione ecc… E invece lo troviamo lì, nel freddo canadese, a battere sui tasti di una macchina da scrivere che era stata di Chester Himes e che naturalmente non è mai stata di Chester Himes. Laferrière parla di Charlie Parker, di gatti, di negritudine, di mosche, di pompini, di India Song. Se potesse, Laferrière parlerebbe di niente.


9) Colson Whitehead – The Colossus of New York (2003) (ed. it Il colosso di New York, Mondadori, 2004)
“Ci sono stanze che puzzano di diesel”, dice Tom Waits in una sua canzone “in cui puoi riprendere i sogni di quelli che ci hanno dormito dentro. “ (9th & Hennepin)
Whitehead fa qualcosa del genere con New York. Questa non è una guida alla città, è una guida ai segni che lasciano le persone che attraversano la città, che prendono la metropolitana, che arrivano e partono, che corrono per Central Park o passano per il ponte di Brooklyn. Whitehead descrive i luoghi, ma oltre ai luoghi materializza a parole quel che resta nell’aria dopo che tutti se ne sono andati via.


10) Chelsea Martin – Even Though I Don’t Miss You (Short Flight/Long Drive Books, 2013)
Il genere si chiama flash-lit. Pezzi brevi, abbozzi di racconti, sfoghi lunghi quanto due tweet, aforismi, prose che costeggiano pericolosamente la poesia, considerazioni acide sul mondo e sugli uomini, battute secche.
Come per esempio: “Ieri ho visto una ragazza per strada, lacrime scendevano lungo un viso del tutto inespressivo, bocca aperta, non emetteva suoni, né badava ad asciugarsi le lacrime dal viso e dal collo, così adesso so di non essere l’unica a fare una cosa del genere.”
Oppure: “Alcuni dei miei amici fanno fatica ad abituarsi al fatto che io legga poesia al cesso e con la porta aperta, ma si vede che non leggono il tipo di poesia che leggo io.”


11) Adam Thirlwell – Multiples (Portobello Books, 2013)
“Cosa rimane di un testo narrativo quando passa da una lingua all’altra?” si domanda Adam Thirlwell. Uno scrittore magari passa un giorno intero a cercare le mot juste (Flaubert) per vedere poi vanificata tutta la sua fatica nella traduzione. Oppure no? Per verificare questo Thirlwell s’inventa uno stress test, come quelli che si fanno per le banche. Prende una dozzina di racconti e chiede a degli amici scrittori di tradurli in un’altra lingua e quindi ad altri scrittori ancora di tradurre quelle traduzioni e così via. Il risultato è spesso infedele, indecoroso, sorprendente, ma assolutamente vertiginoso.




12) Lydia Davis – The Collected Stories of Lydia Davis (Picador, 2009)
Lydia Davis è la prima moglie di Paul Auster. La seconda caratteristica è che scrive quasi solo racconti. E ne scrive tanti. Questa edizione mette assieme quattro raccolte per un totale di 197 titoli. Alcuni sono micidialmente intellettuali, altri ineffabili, altri ancora pianamente insensati. Tra tutti non riesco a dimenticare French Lesson 1: Le Meurtre, in cui Davis, con la scusa di tenere una lezione di francese, in realtà racconta la storia di un crimine. O e il contrario? 



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