PIÑ-QIU
Tuya (2005) – La viuda de
los jueves (2005) – Elena sabe
(2006) – Las grietas de Jara
(2009) – Un comunista en calzoncillos
(2013)
Piñeiro il botto
da noi lo fa con Betibú (2011), ma in
Argentina era famosa anche da prima. Piñeiro parla della medietà della classe
media (Tuya), della povertà umana dei
nuovi ricchi (Las grietas de Jara) e di
quella dei nuovi ricchi quando ritornano poveri (La viuda de los jueves). Piñeiro parla dell’Argentina
contemporanea. Solo una volta ricorda i tempi bui del passato (Un comunista en calzoncillos), ma lo fa
con un libro per metà inconcludente e per metà raffazzonato di materiali non
elaborati. Come se non avesse fatto in tempo a finirlo. O non ne avesse avuto
voglia. O come se l’avesse scritto solo per rispettare i termini di un
contratto. In ogni caso Piñeiro è brillante, è rapida, spesso sorprendente. A
volerle trovare un difetto è un po’ leggerina, ma è comunque una goduria da
leggere.
E poi c’è Elena sabe.
Elena è vecchia
e ha il Parkinson. Elena ha una figlia, l’aveva. Ma quella s’è impiccata a una
corda nel campanile della chiesa e l’ha lasciata sola al mondo. Ma Elena è
sicura che le cose siano andate diversamente. Anche se la polizia continua a
sostenere la tesi del suicidio, lei lo sa che sua figlia aveva paura dei fulmini
e che non sarebbe mai andata vicino al campanile in un giorno di pioggia. Elena
sa che c’è soltanto una persona, un’amica della figlia, che possa aiutarla a
scoprire la verità. Ma sta dall’altra parte della città e per fare il viaggio
ci vogliono ore, treni, taxi. Elena si ripete incessantemente i nomi delle
strade da raggiungere perché ha paura di perdersi in una zona della città che
non conosce. Elena soprattutto ha paura che il proprio corpo la tradisca. È per
questo che prende le pillole. Tutto il romanzo è scandito dalle pillole che
Elena prende e che le danno, ognuna, qualche ora di respiro dal Parkinson, ancora
qualche ora di controllo sul proprio corpo. E dopo un po’ ti domandi se
finiranno prima le pillole o prima il viaggio. E poi ti domandi se anche tu ce
la farai ad arrivare alla fine del libro o se avrai bisogno di qualche pillola
per sopportarlo. Perché anche a te tremano le mani. Anche se il libro che stai
leggendo non è di carta e per andare avanti ti basta toccare lo schermo dell’e-reader.
Lo sai che quando tocchi lo schermo ti tremano le mani. E poi quando arrivi
alla fine della storia e scopri la verità, ti tremano le mani di nuovo.
Plein tarif (1994) – 54X13 (1996) – Train perdu,
wagon mort (2003) – Nus (2007) – Mes soixante huîtres (2008) – Une brève histoire du roman noir (2009)
– Samedi 14 (2011)
Il vero nemico
di Jean-Bernard Pouy è la sua straordinaria facilità di scrittura. Lo mandano a
seguire il Tour de France e lui se ne esce subito con un romanzetto (inutile)
intitolato 54X13. Come trova due
pomeriggi liberi lui si mette lì e ti elenca i suoi amori cinematografici (Je hais le cinéma, 2004). Se gli lasci
due o tre ore di tempo lui non si tira indietro e scrive Mes soixante huîtres, sulla sua condizione di
ex-soissantuitarattardé (ma il termina suona meglio in italiano:
ex-sessantottardo). Io continuo a preferire i suoi primi libri, quelli
pubblicati per la Série noire di Gallimard o per Baleine. Ma anche in tempi più
recenti ha scritto delle cose interessanti. Samedi
14, per esempio è costruito bene e non è banale. A differenza di Nus che è una vera sciocchezza.
L’estrema
prolificità pouyana è uno dei motivi per cui non ha mai avuto grande risonanza
in Italia. L’altro motivo è che Pouy è uno che ci perde in traduzione. Pouy usa
spesso l’argot. Un argot che non è più un gergo criminale e
non ha nulla di regionalistico, che è naturalmente colloquiale, è quasi una
seconda lingua, ma non ha equivalenti in italiano. E dunque pif non è il naso,
tif non sono i capelli, pinard non è il vino. E roupiller non è dormire, né
sonnecchiare, né schiacciare un pisolino, assopirsi, fare la pennichella,
cadere nelle braccia di Morfeo, farsi un sonno, abbioccarsi, fare delle zeta.
Roupiller è roupiller. Non c’è rimedio.
Death of a Red Heroine (2000) – A Loyal Character Dancer (2002) – When Red Is Black (2004) – A
Case of Two Cities (2006) – Red
Mandarin Dress (2007) – The Mao Case
(2009) – Don’t Cry, Tai Lake (2012) –
Enigma of China (2013)
Leggendo i libri
di Qiu Xialong si imparano un sacco di cose. Il suo eroe, in realtà, da grande
voleva fare il poeta o almeno il traduttore (ha tradotto in cinese La terra desolata di T. S. Eliot), poi
il partito gli ha imposto di fare l’ispettore di polizia e lui ha ubbidito. Ma
proprio per questo ogni due pagine cita qualche verso della poesia classica
cinese. E ogni cinquanta pagine ci mette anche dei versi scritti in proprio.
Ora, io non so niente di poesia classica cinese, però considerate il poeta Niu
Xiji quando ricorda il momento in cui è stato abbandonato dalla donna amata. E
tutto quello che ricorda è la sua gonna verde. E così scrive: “Con la tua gonna
verde ancora in mente, ovunque / mi trovi, calpesto l’erba con leggerezza”.
Leggendo i libri
di Qiu Xialong si imparano un sacco di cose. Per esempio che quel che offrono i
ristoranti cinesi in Occidente è solo la centesima parte di una tradizione
culinaria inesauribile. L’ispettore Chen Cao, ogni tre pagine, quando non cita
passi della poesia cinese, si ferma a mangiare nei posti più impensati e alle
ore più imprevedibili e ti racconta storie infinite di granchi, teste di carpa,
cross-bridge noodles, senza farsi
mancare nulla. Neppure la “cena crudele” quella col brodo di tartaruga viva e
col cervello di scimmia mangiato a cucchiaiate direttamente dal cranio
dell’animale.
Leggendo i libri
di Qiu Xiaolong si imparano un sacco di espressioni (in inglese, lui è scappato
dalla Cina dopo Tienanmen e scrive in inglese). Per esempio “big buck” (sono i
nuovi ricchi), HC (che sta per “high cadre”), “piccola segretaria” (l’amante
del capo), K-girl (è la ragazza karaoke, ma non necessariamente una
prostituta). E soprattutto “fare nuvole e pioggia” che è la versione cinese, un
tantino più sofisticata, di templar. Che
è l’equivalente cubano del verbo coger.
Che a sua volta è l’espressione che gli argentini usano... ma questa devo
avervela già detta.
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