lunedì 8 giugno 2015

Libri letti ultimamente PIÑ-QIU



PIÑ-QIU


Piñeiro, Claudia
Tuya (2005) – La viuda de los jueves (2005) – Elena sabe (2006) – Las grietas de Jara (2009) – Un comunista en calzoncillos (2013)

Piñeiro il botto da noi lo fa con Betibú (2011), ma in Argentina era famosa anche da prima. Piñeiro parla della medietà della classe media (Tuya), della povertà umana dei nuovi ricchi (Las grietas de Jara) e di quella dei nuovi ricchi quando ritornano poveri (La viuda de los jueves). Piñeiro parla dell’Argentina contemporanea. Solo una volta ricorda i tempi bui del passato (Un comunista en calzoncillos), ma lo fa con un libro per metà inconcludente e per metà raffazzonato di materiali non elaborati. Come se non avesse fatto in tempo a finirlo. O non ne avesse avuto voglia. O come se l’avesse scritto solo per rispettare i termini di un contratto. In ogni caso Piñeiro è brillante, è rapida, spesso sorprendente. A volerle trovare un difetto è un po’ leggerina, ma è comunque una goduria da leggere.
E poi c’è Elena sabe.
Elena è vecchia e ha il Parkinson. Elena ha una figlia, l’aveva. Ma quella s’è impiccata a una corda nel campanile della chiesa e l’ha lasciata sola al mondo. Ma Elena è sicura che le cose siano andate diversamente. Anche se la polizia continua a sostenere la tesi del suicidio, lei lo sa che sua figlia aveva paura dei fulmini e che non sarebbe mai andata vicino al campanile in un giorno di pioggia. Elena sa che c’è soltanto una persona, un’amica della figlia, che possa aiutarla a scoprire la verità. Ma sta dall’altra parte della città e per fare il viaggio ci vogliono ore, treni, taxi. Elena si ripete incessantemente i nomi delle strade da raggiungere perché ha paura di perdersi in una zona della città che non conosce. Elena soprattutto ha paura che il proprio corpo la tradisca. È per questo che prende le pillole. Tutto il romanzo è scandito dalle pillole che Elena prende e che le danno, ognuna, qualche ora di respiro dal Parkinson, ancora qualche ora di controllo sul proprio corpo. E dopo un po’ ti domandi se finiranno prima le pillole o prima il viaggio. E poi ti domandi se anche tu ce la farai ad arrivare alla fine del libro o se avrai bisogno di qualche pillola per sopportarlo. Perché anche a te tremano le mani. Anche se il libro che stai leggendo non è di carta e per andare avanti ti basta toccare lo schermo dell’e-reader. Lo sai che quando tocchi lo schermo ti tremano le mani. E poi quando arrivi alla fine della storia e scopri la verità, ti tremano le mani di nuovo.


Pouy, Jean-Bernard
Plein tarif (1994) – 54X13 (1996) – Train perdu, wagon mort (2003) – Nus (2007) – Mes soixante huîtres (2008) – Une brève histoire du roman noir (2009) – Samedi 14 (2011)

Il vero nemico di Jean-Bernard Pouy è la sua straordinaria facilità di scrittura. Lo mandano a seguire il Tour de France e lui se ne esce subito con un romanzetto (inutile) intitolato 54X13. Come trova due pomeriggi liberi lui si mette lì e ti elenca i suoi amori cinematografici (Je hais le cinéma, 2004). Se gli lasci due o tre ore di tempo lui non si tira indietro e scrive Mes soixante huîtres, sulla sua condizione di ex-soissantuitarattardé (ma il termina suona meglio in italiano: ex-sessantottardo). Io continuo a preferire i suoi primi libri, quelli pubblicati per la Série noire di Gallimard o per Baleine. Ma anche in tempi più recenti ha scritto delle cose interessanti. Samedi 14, per esempio è costruito bene e non è banale. A differenza di Nus che è una vera sciocchezza.
L’estrema prolificità pouyana è uno dei motivi per cui non ha mai avuto grande risonanza in Italia. L’altro motivo è che Pouy è uno che ci perde in traduzione. Pouy usa spesso l’argot. Un argot che non è più un gergo criminale e non ha nulla di regionalistico, che è naturalmente colloquiale, è quasi una seconda lingua, ma non ha equivalenti in italiano. E dunque pif non è il naso, tif non sono i capelli, pinard non è il vino. E roupiller non è dormire, né sonnecchiare, né schiacciare un pisolino, assopirsi, fare la pennichella, cadere nelle braccia di Morfeo, farsi un sonno, abbioccarsi, fare delle zeta. Roupiller è roupiller. Non c’è rimedio.


Qiu, Xiaolong
Death of a Red Heroine (2000) – A Loyal Character Dancer (2002) – When Red Is Black (2004) – A Case of Two Cities (2006) – Red Mandarin Dress (2007) – The Mao Case (2009) – Don’t Cry, Tai Lake (2012) – Enigma of China (2013)

Leggendo i libri di Qiu Xialong si imparano un sacco di cose. Il suo eroe, in realtà, da grande voleva fare il poeta o almeno il traduttore (ha tradotto in cinese La terra desolata di T. S. Eliot), poi il partito gli ha imposto di fare l’ispettore di polizia e lui ha ubbidito. Ma proprio per questo ogni due pagine cita qualche verso della poesia classica cinese. E ogni cinquanta pagine ci mette anche dei versi scritti in proprio. Ora, io non so niente di poesia classica cinese, però considerate il poeta Niu Xiji quando ricorda il momento in cui è stato abbandonato dalla donna amata. E tutto quello che ricorda è la sua gonna verde. E così scrive: “Con la tua gonna verde ancora in mente, ovunque / mi trovi, calpesto l’erba con leggerezza”.
Leggendo i libri di Qiu Xialong si imparano un sacco di cose. Per esempio che quel che offrono i ristoranti cinesi in Occidente è solo la centesima parte di una tradizione culinaria inesauribile. L’ispettore Chen Cao, ogni tre pagine, quando non cita passi della poesia cinese, si ferma a mangiare nei posti più impensati e alle ore più imprevedibili e ti racconta storie infinite di granchi, teste di carpa, cross-bridge noodles, senza farsi mancare nulla. Neppure la “cena crudele” quella col brodo di tartaruga viva e col cervello di scimmia mangiato a cucchiaiate direttamente dal cranio dell’animale.
Leggendo i libri di Qiu Xiaolong si imparano un sacco di espressioni (in inglese, lui è scappato dalla Cina dopo Tienanmen e scrive in inglese). Per esempio “big buck” (sono i nuovi ricchi), HC (che sta per “high cadre”), “piccola segretaria” (l’amante del capo), K-girl (è la ragazza karaoke, ma non necessariamente una prostituta). E soprattutto “fare nuvole e pioggia” che è la versione cinese, un tantino più sofisticata, di templar. Che è l’equivalente cubano del verbo coger. Che a sua volta è l’espressione che gli argentini usano... ma questa devo avervela già detta. 

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