venerdì 25 ottobre 2013

La mala vita di Vila-Matas





Rita Malú è nata a Parigi in rue de Marseille, ma è andata a vivere nel quartiere Malakoff perché è lì che abita la celebre artista Sophie Calle, il suo idolo, il suo modello, l’oggetto della sua ossessione. Rita le assomiglia anche un po’, tranne che nella statura (Rita è più alta). È per questo che gira ingobbita. È per questo che espone nella galleria di rue de Marseille dei lavori che vorrebbero assomigliare alle novelas de pared di Sophie. Rita si annoia.

Un giorno decide di trasformare la sua casa nell’ufficio di un investigatore privato. Si fa anche mettere una porta a vetri con su scritto “Rita Spade, detective”. I suoi annunci sul giornale non le portano clienti. “Qué aburrimiento” dice Rita. Sta quasi per abbandonare il progetto quando le si presenta una donna che cerca lo scrittore Jean Turner, il suo ex-marito, che dovrebbe trovarsi a Pico, un’isola delle Azzorre, ma che da tempo non si fa sentire. In realtà Rita capisce subito che la donna non è per nulla l’ex-moglie, ma solo una che ha perso la testa per (la foto sul risvolto de)i libri dell’autore. Nonostante questo compra i libri di Turner, li legge e decide di partire per le Azzorre. La notte prima di partire sogna una casa in cima a un promontorio, tutta dipinta di rosso, e un uomo anziano che apre la porta della casa.

Arrivata a Faial resta bloccata per il maltempo, ma si gode quei pochi giorni di passaggio bivaccando al Peter’s Bar, il bar dei vecchi balenieri. Non appena il tempo lo permette raggiunge l’isola di Pico, anche se non ha più nessuna voglia di cercare lo scrittore. Una volta sbarcata trova due tassisti nel porto, uno vecchio e uno giovane. Ma questo lo sapeva già perché l’aveva letto in uno dei libri di Turner. Sceglie il vecchio e si fa portare da lui al Museo delle Balene di Lajes. Che trova chiuso. Ma questo lo sapeva già perché gliel’avevano detto a Faial. Di ritorno verso il porto, già pronta ad abbandonare l’impresa, vede in cima a un promontorio una casa tutta dipinta di rosso. Una casa identica a quella che aveva sognato. Scende a terra, bussa alla porta e si trova davanti un uomo anziano. Un uomo identico a quello che aveva sognato. Identico a Turner, ma di cinquant’anni più vecchio. Non sapendo che dire, Rita gli chiede se la casa è in vendita.

L’uomo anziano le risponde di sì, ma le consiglia di non comprarla. “Questa casa è abitata da un fantasma.”
Un attimo di silenzio.
“E di chi è questo fantasma?” chiede Rita.
“Il suo” risponde l’uomo.

***

L’autore confessa di aver scritto questo racconto su commissione. Era stata la stessa Sophie Calle a chiederglielo. Un giorno lei gli aveva telefonato e si erano dati appuntamento al Flore a Parigi. L’idea era che lui scrivesse un racconto con la promessa che poi lei si sarebbe impegnata a viverlo, avrebbe seguito in tutto e per tutto le indicazioni dell’autore per trasferire nella realtà quel che lui aveva immaginato. Aveva già proposto la stessa cosa a Paul Auster, ma poi la cosa era finita in nulla, aveva aggiunto Sophie.

L’autore non se lo fa dire due volte e si mette al lavoro. In due settimane scrive El viaje de Rita Malú e lo spedisce per posta elettronica. Sophie non risponde. Il tempo passa e l’autore s’innervosisce, ha un blocco di creatività, non scrive più nulla se non appunti su un suo diario personale. Seguono una serie di ostacoli. La mail dell’autore era finita nello spam, poi muore la madre di Sophie, poi la Biennale di Venezia le affida un incarico importante. Sophie continua a dichiarare di essere attratta dal progetto, ma per un motivo o per l’altro l’orizzonte s’allontana. Seguono scambi di mail, incomprensioni, incontri fugaci al Salone del Libro a Parigi. Segue un intervento che l’autore subisce a causa di un’insufficienza renale che quasi rischiava di farlo andare in coma. Intanto lui non scrive.

Prova a reagire. Prende a caso le prime righe del suo diario e decide di metterle in pratica, di provare a viverle, di essere lui a fare quell’esperimento che Sophie sembra così renitente a fare.
Il diario inizia così: “Amanece en mi cuarto de las ventanas altas cuando, al inaugurar este cuaderno rojo de notas o diario que escribiré desde Barcelona y otras ciudades nerviosas, me pregunto cuál es mi nombre, quién escribe, y se me occurre che mi cuarto es como una cavidad craneal de la que surjo como un ciudadano inventado...”
Ma come diavolo si fa a vivere delle frasi del genere che non sono altro che letteratura?
Allora va avanti nella lettura, ripercorre i suoi appunti, arriva al momento in cui, pensando a Sophie Calle, ha cominciato a inventarsi una storia. La storia di un’artista famosa che si mette in contatto con lui, che gli da appuntamento a Parigi e che gli chiede di scrivere una storia che lei si sarebbe poi impegnata a vivere. E poi le mail che non tornano, i ritardi, le incomprensioni e tutto il resto.
“Perché ho inventato tutto questo?” si domanda l’autore. Forse proprio perché lei non me l’ha mai chiesto, porque ella no lo pidió.




Porque ella no lo pidió è un racconto di Enrique Vila-Matas che compare nella raccolta Exploradores del abismo (Anagrama, 2007).
Poi il racconto non finisce così, ma non vi dico come finisce. Resta il fatto che c’è una distanza abissale tra la letteratura e la vita e che Vila-Matas soffre e rifugge l’attrazione di quell’abisso che è la vita, di quello che lui chiama ese tenebroso agujero que llamamos vida. Il titolo del post, l’ammetto, è un po’ sforzato (non esiste una buona letteratura contrapposta a una mala vita), ma il quasi anagramma m’è parso subito irresistibile.

Resta il fatto che ogni volta che leggo qualcosa di Enrique Vila-Matas mi convinco di aver a che fare col più grande scrittore vivente. Poi chiudo il libro, rientro nella vita reale, mi rituffo nel mio abisso. In qualche modo torno sobrio. Capisco di aver esagerato. Ma non di tanto.
Non di tanto.

giovedì 17 ottobre 2013

Thomas Pynchon: Blunt Not Bleeding




In un certo senso Bleeding Edge (Penguin, 2013), il nuovo libro di Thomas Pynchon, è William Gibson Meets Bret Easton Ellis.
Lester Traipsie viene ucciso al penultimo piano del Deseret e Maxine Tarnow lo rivede a p. 199 in giro per New York. Il giorno dopo va dall’analista e nella sala d’aspetto trova uno che assomiglia ad Alex Trebek, ma che in realtà è Conkling Speedwell. E questo è American Psycho nella sua essenza.
Maxine si tuffa ogni tanto nelle profondità di DeepArcher (pronunciato come departure, come lo tradurranno in italiano? DeepArtita? DeesTacco? SheesMa? RoamyTaggio?... più probabilmente lo lasceranno così com’è) uno spazio protetto, un’isola di libertà all’interno di Internet, un gnessulógo, letteralmente, un’utopia. E questo è Neuromancer quasi trent’anni dopo.


Il che non sarebbe grave. La cosa disarmante è un’altra.


Scriveva Musil circa ottanta anni fa:
“(…) venne in mente [a Ulrich] che la legge di questa vita a cui si aspira oppressi sognando la semplicità non è se non quella dell'ordine narrativo, quell'ordine normale che consiste nel poter dire: «Dopo che fu successo questo, accadde quest’altro». Quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione, come direbbe un matematico, l'opprimente varietà della vita; infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! Beato colui che può dire «allorché», «prima che» e «dopo che»! Avrà magari avuto tristi vicende, si sarà contorto dai dolori, ma appena gli riesce di riferire gli avvenimenti nel loro ordine di successione si sente così bene come se il sole gli riscaldasse lo stomaco. (…) Nella relazione fondamentale con se stessi, quasi tutti gli uomini sono dei narratori. Non amano la lirica, o solo di quando in quando, e se anche nel filo della vita si annoda qualche «perché» o «affinché», essi esecrano ogni riflessione che vada più in là; a loro piace la serie ordinata dei fatti perché somiglia a una necessità, e grazie all'impressione che la vita abbia un «corso» si sentono in qualche modo protetti in mezzo al caos. E Ulrich si accorse di aver smarrito quell'epica primitiva a cui la vita privata ancora si tien salda, benché pubblicamente tutto sia già diventato non narrativo e non segua più un «filo» ma si allarghi in una superficie sterminata.” (L’uomo senza qualità, Einaudi, 1972, cap. 122, pp. 629-30)

Detto tra parentesi, negli stessi anni avremmo avuto il principio d’indeterminazione di Heisenberg (1927) e il teorema di Gödel (1931).



Per questo, proprio perché è scomparsa quell’epica primitiva e perché tutto si è allargato in una superficie sterminata, per questo Leni Pökler può dire:
“Not produce. (...) Not cause. It goes all along together. Parallel, not series. Metaphor. Signs and symptoms. Mapping to different coordinate systems.” (Gravity’s Rainbow, Picador, 1983, p. 159)

E per questo, a maggior ragione, Roger Mexico può dire:
“The next great breakthrough may come when we have the courage to junk cause-and-effect entirely, and strike off at some other angle.” (p. 89)

In questo senso Gravity’s Rainbow non è un libro fondamentale solo perché Pynchon sa scrivere o perché è un romanzo multiforme, ironico, divertente, pieno di personaggi singolari. È un grande libro perché è caotico e corale, perché è privo di un centro, perché assume in sé e cerca di rendere le articolazioni della complessità.

Detto tra parentesi, in quegli stessi anni avremmo avuto la teoria dei sistemi complessi (vedi su questo Morris Mitchell Waldrop, Complessità, Istar, 1996). Un sistema complesso è un sistema sufficientemente grande, sufficientemente robusto, caratterizzato da processi di feedback positivi e negativi e da fenomeni di auto-organizzazione spontanea. In cui non esiste un centro e in cui tutto è in relazione con tutto. Dunque, totalmente deterministico, ma anche essenzialmente imprevedibile. Ovvero, non più una singola causa a cui corrisponde un singolo effetto, ma una concomitanza di cause che sovradetermina una costellazione di effetti. E questi a loro volta che retroagiscono sulle cause.
La vita, in questo senso, è un sistema complesso, così come la Borsa, il mondo dell’informazione, le perturbazioni atlantiche e ovviamente Internet che quindi è, per definizione, incontrollabile.

Tutto questo per dire che Bleeding Edge è una delusione. È un libro in cui la protagonista, Maxine Tarnow, è in scena dall’inizio alla fine. In cui tutto quel che vediamo è quel che passa attraverso il suo sguardo. Un libro pieno zeppo di riferimenti alla cultura pop di inizio secolo e di citazioni di ristoranti newyorkesi (qui è di nuovo il côté Easton Ellis a spuntare fuori, ma senza il suo sanguinoso distacco).
Un libro in cui la tradizionale paranoia di Pynchon si trasforma in banale complottismo. C’è una differenza sostanziale tra paranoici e complottisti. Entrambi pensano che tutto sia collegato a tutto, ma i secondi credono che questo abbia una spiegazione semplice. I complottisti cioè sono convinti che la SPECTRE esista realmente e che Ernst Stavro Blofeld abbia davvero un gatto persiano a cui tiene moltissimo. I complottisti sono come i bambini che per dormire hanno bisogno di farsi raccontare la favola di Babbo Natale. Un individuo, al soldo della Toys 'R' Us, che vive in promiscuità con delle renne clonate.
Così dobbiamo sentirci dire che l’11 settembre è stato un inside job, organizzato per giustificare l’avvio di una guerra globale al terrorismo ecc... (oh, please, not again).
E che Internet non è altro che un sistema di controllo perché nasce, forse non lo sapevate, dalle ceneri di ARPAnet, una rete concepita dal Pentagono per assicurarsi una continuità nelle comunicazioni in caso di attacco nucleare. Gee, Tommy, it’s like, we really  didn’t know that.
Essenzialmente, il difetto di Bleeding Edge è quello di essere una storia lineare. Piena di «allorché», «prima che» e «dopo che». Tanto che, in alcuni momenti, ci si sente così bene come se il sole ci riscaldasse lo stomaco.



In New Rose Hotel, un racconto di Gibson di una trentina di anni fa, c’è un personaggio di nome Fox che è alla ricerca ossessiva del Margine.
“The Edge was Fox’s grail, that essential fraction of sheer human talent, nontransferable, locked in the skulls of the world’s hottest research scientists.” (Burning Chrome, Grafton, 1988, p. 124)

Quello spicchio essenziale di puro, non trasferibile talento umano che Thomas Pynchon possedeva e che ora sembra aver perso.

La verità è che un bordo ha sempre due lati. Da una parte c’è il margine della ferita che sanguina (bleeding), dall’altra c’è il filo della lama che taglia. Un filo che in questo caso è smussato (blunt). Da cui il titolo di questo post.

venerdì 11 ottobre 2013

Pop 1280 (4): Jean-Bernard Pouy manca il bersaglio




Jim Thompson – Pop. 1280, Gold Medal, 1964 (Black Lizard, 1990)
Marcel Duhamel (trad.) – 1275 âmes, Série noire 1000, Gallimard, 1966 (Carré noir 337, 1981)
Attilio Veraldi (trad.) – Colpo di spugna, La Gaia Scienza 186, Longanesi, 1983
Jean-Bernard Pouy – 1280 âmes, Baleine, 2000 (Points, 2003)

E comunque il mistero rimane. Un libro può anche cambiare nome da una lingua a un'altra. A volte perché la traduzione letterale del titolo è già stata usata e farebbe confusione. A volte perché il direttore marketing vuol mostrare di essere creativo e vuol fare confusione. A ognimmodo a nessuno verrebbe mai in mente di far uscire in Italia un libro intitolato I sette moschettieri, Venticinque anni dopo o Le mille e tre notti. I numeri normalmente restano uguali. Allora perché mai Maurice Duhamel decide di passare da 1280 abitanti a 1275? Che fine hanno fatto quei cinque poveri desaparecidos?

Questo è quello che si chiede Pierre de Gondol nel romanzo di Jean-Bernard Pouy. O meglio, è quello che chiede uno sconosciuto che entra nel negozio di Pierre de Gondol. Perché lui non è un detective, è un bouquiniste, un venditore di libri usati, ma molto spesso la ricerca di un libro andato perduto è tanto appassionante quanto la ricerca di un assassino.
Pierre si mette subito al lavoro e scopre l'episodio che Duhamel ha tagliato, quello dell'uomo col vestito a scacchi e della donna nuda sul pony pezzato. Aggiungete a questi il controllore del treno e abbiamo già trovato tre dei cinque personaggi scomparsi. Di lì in poi, però, invece di andare a scavare nel passato di Marcel Duhamel, il nostro eroe parte per gli Stati Uniti dove dà mostra di tutta la sua fighetteria da grenouille e di tutta la sua cinefilia raffinata (cita anche con le lacrime agli occhi Two Lane Blacktop di Monty Hellman, uno dei film preferiti di Franco La Polla). E chiude alla fine il libro con una soluzione che non serve a niente e non convince nessuno. In realtà si capisce benissimo che non sapeva come chiuderlo.

Il fatto è che Pouy scrive troppo (novanta libri circa in trent'anni). Oulipista convinto, riempie i suoi libri di riferimenti cifrati, omaggi nascosti, strizzate d'occhio, toccatine di gomito, “lingua sulla guancia” (tongue-in-cheek come dicono gli americani), insomma tutto il repertorio di tic nervosi tipici di un intellettuale francese.
Jean-Bernard Pouy, sia chiaro, è convinto che esistano anche forme di vita intelligente al di fuori di un libro, ma non tante. Non è al livello Enrique Vila-Matas che pensa che la vita reale sia poco più di una nota a pie' pagina nella storia della letteratura, ma ci va vicino. Con la differenza, poi, che Vila-Matas è un grande scrittore. Pouy un po' meno.
Io continuo a preferire i suoi romanzi anni Ottanta come Nous avons brûlé une sainte, Le cinéma de papa, Suzanne et les ringards. Per non parlare di quel brusco, acerbo e fulminante esordio intitolato Spinoza encule Hegel (Baleine, 1983). E per non parlare dell'intera serie che ha come protagonista Gabriel Lecouvreur, dit Le Poulpe.

Resta il fatto che scrive troppo. Qui aveva tra le mani un soggetto strepitoso (un mistero letterario che si trasforma in detection) e se l'è lasciato sfuggir via come un principiante. Tutta la parte americana del libro non è giustificata da nulla se non dal fatto che Iris, la fidanzata di Pierre De Gondol, è in quel momento in giro per gli Stati Uniti con una compagnia teatrale. E quindi a un certo punto i due si ritrovano in Texas. “On a mangé, bu et fait la bête à deux dos en emmerdant Jim Thompson, l'Art théâtral, les States, le Texas et les cinquante autre Etats” (p. 160). Ovvero hanno fatto la bestia a due schiene. Vous voyez le topo ou voulez-vous que je vous fasse un dessin?

Questa espressione l'avevo già trovata in San-Antonio e pensavo l'avesse inventata lui. Serge Le Doran, Frédéric Pelloud e Philippe Rosé, nel loro Dictionnaire San-Antonio (Fleuve Noir, 1993), la includono tra le 1252 espressioni usate da Frédéric Dard per indicare le varie posizioni amorose.
Ma mi sbagliavo. Perché l'inventore è in realtà Rabelais.
“(...) et fasoient eux deux souvent ensemble la beste à deux doz, joyeusement se frotans leur lard” sta scritto all'inizio del terzo capitolo di Gargantua.
Avevo iniziato questa serie di post con Rabelais. Era giusto chiudere con lui.

sabato 5 ottobre 2013

Pop 1280 (3): a ognimmodo, Attilio Veraldi




Jim Thompson – Pop. 1280, Gold Medal, 1964 (Black Lizard, 1990)
Marcel Duhamel (trad.) – 1275 âmes, Série noire 1000, Gallimard, 1966 (Carré noir 337, 1981)
Attilio Veraldi (trad.) – Colpo di spugna, La Gaia Scienza 186, Longanesi, 1983
Jean-Bernard Pouy – 1280 âmes, Baleine, 2000 (Points, 2003)

Nick Corey parla male. È un ragazzone ignorante di un insignificante paesino nel sud degli Stati Uniti, quindi parla male. Poi ogni tanto gli scappa qualche termine giuridico tecnico (you got guilty knowledge, T148; laying a predicate for justifiable assault, T129) e la gente lo guarda con due occhi così per la sorpresa. In realtà Nick non è così ignorante come vuol far credere. You're no ignoramus, Nick. Why do you talk like one? (T92) gli chiede a un certo punto Amy. E Nick le spiega che lo fa per abitudine. Lo fa perché questo è quel che gli altri si aspettano da lui.

E dunque Nick dice natcherly per naturally, riddicerlous per ridicolous, perlite per polite, shadder per shadow, figger per figure, vicey-versa per vice versa, yaller per yellow, hawgs per hogs e dawgs per dogs. Ken Lacey, che sarà pure sceriffo di una contea più grande della sua, ma è comunque un perfetto cafone, dice pitchers invece di pictures, shorely invece di surely, hypocritical invece di hypothetical, prob'ly invece di probably, idjit invece di idiot, kee-reck invece di correct e pre-zackly invece di precisely. Senza contare poi Uncle John che parla come Mamie in Via col vento.

Rendere tutto questo in italiano non è facile. I francesi da questo punto di vista hanno la fortuna di possedere un argot riconosciuto nazionalmente e letterariamente rispettabile. Noi italiani, ogni volta che ci proviamo, caschiamo nel termine regionalistico, quando non dichiaratamente dialettale. Basta troncare una finale (che stai a fa'?) e sembra subito romano. Basta togliere un non (quello lì capisce niente) e suona subito settentrionale. Da questo punto di vista Veraldi nella sua traduzione di Pop 1280 fa miracoli.

Certo, quando usa termini come fetenzia, mazzate, settati, pittando o acchittato suona un tantino meridionale. Canchero come sostituto di heck è addirittura troppo letterario. Ma è felicissimo l'uso di che mi cechino al posto di god-dang. Veraldi fa veri miracoli. Gli riescono soprattutto quando raddoppia qualche consonante qua e là. Quando s'inventa ognimmodo o eggià. Molto meno quando ci prova con riddicolo, con natturale che più che sporcature della lingua sembrano refusi sfuggiti ai correttori. E comunque Veraldi fa miracoli anche perché lui, oltre che traduttore, è uno scrittore vero. Andate a ripescare La mazzetta (Rizzoli, 1976) e vous m'en direz des nouvelles.

La prima cosa che fa Veraldi è conservare la narrazione al passato (Duhamel aveva volto tutto al presente) sapendo benissimo di andare incontro a tutti quei rovinosissimi passati remoti come flettei, arrivasti, premette, ammorbammo, indovinaste, disfecero che impestano la lingua italiana. Ma lui è così bravo che schiva quasi sempre l'ostacolo. Solo verso la fine gli scappano un te la scopasti (V153) e un voi impediste (V156) che gridano vendetta al cielo, ma sono dettagli.

La seconda cosa che fa è anche l'unica risorsa sensata per sporcare la lingua evitando il dialetto: l'uso dell'indicativo al posto del congiuntivo. E così troviamo frasi come credo che forse te lo devo dire prima (V67), pareva proprio che stavo per diventare (V90), credo che hai ragione (V105), meglio che [Rose] assume qualche aiuto (V146), immagino che ho sempre bisogno di sonno (V166), ecc... Sono errori comuni, transregionali, capaci comunque di abbassare il tono del linguaggio.

Certo, anche lui le sue cantonate le prende. First things first (T69) non si può tradurre con prima le prime cose (V64). A quarter section (T70) è una misura agraria pari a 160 acri e quindi non si può rendere con Il terreno tutt'intorno, un buon quarto di esso, era... (V65). The last month before election (T64) vuol dire il mese prima delle scorse elezioni non il mese scorso prima delle elezioni (V60). Il mese scorso non ci sono state elezioni a Pottsville. E soprattutto if you can't lick 'em, join 'em (T164) non significa se-non-puoi-leccarli-unisciti-a-loro (V149). Questa proprio non la salterebbe un cavallo!

A ognimmodo mi cechino se la sua traduzione non è più sobria, calibrata e precisa di quella di Duhamel. Faccio un esempio. A un certo punto Nick si sente poeta e dunque pronto a scrivere poems about piss tinkling in pots and jaybirds with the bots and assholes tying knots (T184). Duhamel, che è francese e non si trattiene, traduce con les clapotis de la pisse dans le pot de chambre, les pies-borges dans les scaphandres, les trous du cul en palissandre (D210). Difficile credere che quel buzzurro di Nick Corey conosca il significato di termini come scaphandres e palissandre. Duhamel deve aver preso un rimario alla voce -andre e di lì in poi ha pensato di mostrare l'evidente e chiara superiorità della lingua francese su tutte le altre lingue del mondo. Io invece me l'immagino Veraldi che sorride sornione e quatto quatto, quasi senza dare nell'occhio, si mette lì e scrive: poesie sulla piscia che scroscia sugli orinali e sugli uccelli nei temporali e sui pirla coi genitali (V167).
Non puoi battere un traduttore onesto, nemmeno se ti chiami Marcel Duhamel. (à suivre)

venerdì 27 settembre 2013

Pop 1280 (2): le scorciatoie di Marcel Duhamel




Jim Thompson – Pop. 1280, Gold Medal, 1964 (Black Lizard, 1990)
Marcel Duhamel (trad.) – 1275 âmes, Série noire 1000, Gallimard, 1966 (Carré noir 337, 1981)
Attilio Veraldi (trad.) – Colpo di spugna, La Gaia Scienza 186, Longanesi, 1983
Jean-Bernard Pouy – 1280 âmes, Baleine, 2000 (Points, 2003)

Nella collana “Série noire” il libro di Jim Thompson è il numero 1000. Marcel Duhamel all'epoca non faceva più tante traduzioni come negli anni Quaranta, quando un libro su due l'aveva tradotto o revisionato lui. L'ultimo a cui aveva messo mano era stato l'871 e in seguito avrebbe firmato solo il 1136 e il 1389. E poi più nulla. Ma a questo libro Duhamel ci tiene, si capisce che ci tiene. Questo libro è il numero 1000.

La prima cosa che fa Duhamel è portare tutto al presente (era il direttore della collana, poteva permettersi questo e altro), col vantaggio di schivare tutti i fûmes, êutes, tinrent, insomma tutti i passati remoti che in francese (come in italiano) sono così pesanti e difficili da maneggiare.

La seconda cosa è dar fondo a tutto l'argot e le espressioni idiomatiche che conosce. Per questo la sua traduzione è una festa. Quando nell'originale Nick dice qualcosa come sono sicuro che lui traduce je vous fiche mon billet. In due occasioni traduce fast con en deux temps et trois mouvements. Rosa dice a Lennie: You and Myra better stop playing tickle the pickle (T192) e Duhamel risponde con si tu continues à jouer de la clarinette avec Myra (D220). E ancora to diddle her fiddle (T191) diventa pour lui titiller le boulingrin (D219). Qualche capitolo prima Myra va alla fiera e si fa bella (ellle s'était donnée du tintouin pour se faire belle, D111), poi incontra Nick e she twisted and twitched and twittered (T95). Duhamel raccoglie la sfida con elle frétille, se trémousse et se tortille (D112). Veraldi non ce la fa e s'incarta in un orribile cinguettò, dimenandosi e contorcendosi (V88). A un certo punto Nick pensa it looked like I'd sold my pottage for a mess of afterbirth, as the saying is (T99). E s'imbroglia da solo perché la frase giusta è I sold my birthright for a mess of pottage. Ma Duhamel non s'imbroglia e controbatte con J'avais, comme on dit, vendu mon plat d'aînesse pour un droit de lentilles (D117). E quando Rose urla a Nick qualcosa tipo se mi lasci ti sparo, lui trova modo di confortarla dicendole che questo non succederà mai: that time ain't never gonna come (T85). Ma Nick è molto più rassicurante in francese quando dice in c'est pas demain la veille (D101).

Duhamel ci tiene e non si trattiene. Delle volte aggiunge delle frasi di suo. Per dire del direttore di banca che faceva sempre la stessa cosa alla stessa ora, aggiunge réglé comme du papier à musique (D25). Per far capire che Nick era stanco morto gli fa dire in più: Je serais même pas fichu de rentrer mon poing dans de la mousse au chocolat (D184). Nella sfuriata finale di Rose trova modo di aggiungere tre righe: Qu'est-ce que tu voudrais me faire croire? Que t'étais la queue de sa poêle et que vous faisiez sauter des crêpes? Ou que tu lui tricotais un gilet de flanelle, peut-être? (D219). Così senza nessuna ragione al mondo.
E poi la più bella di tutte. Ken Lacey è ubriaco, vuol far credere di aver fatto fuori i due papponi del bordello e dice: You know, I – hic! - took care of 'em (T55). Duhamel traduce splendidamente Je les ai … hic... quidés (D66). Ma non contento di questo nella pagina prima gli fa dire un'altra battuta che nell'originale non c'è: T'as jamais rien dit de plus vérid... hic, nom de nom! (D65). Come si fa a criticare uno che traduce così?

Certo anche lui le sue cantonate le prende (era il direttore, scriveva quel che voleva e soprattutto non pensava che a cinquant'anni di distanza un fesso qualunque come me sarebbe andato a fargli le pulci). E comunque to sass (T30) non vuol dire enrager (D37), ma insultare. The sheriff a couple of counties down the river (T18) non è uno sceriffo a capo di due o tre contee (D23), è lo sceriffo di due o tre contee più giù lungo il fiume. Così come si dice two doors down per dire due porte più in giù lungo la strada. E they'd be feeling their oats (T39) non vuol dire che erano ubriachi (D49) ma che si sentivano in cima al mondo. Oltre al fatto che hurry-up dye job (T132) non è nettoyer à la va-vite (D153), ma significa tingere in fretta. Ma sono dettagli. E poi chi sta a guardare?

Certo che anche lui le sue libertà se le prende (era il direttore, chi poteva dirgli qualcosa?). Nel capitolo 2 mancano tre righe a p. 9 e l'intero episodio (due pagine circa) della donna nuda sul pony pezzato. Nel cap. 4 manca la battuta di Buck: You're a thousand per cent right, Ken. I-I reckon there ain't nothin' less appetizin' than a cold horse turd (T27-28) forse perché Duhamel non l'ha capita. Viene tagliata una riga nel cap. 5, un'altra nel cap. 7, 10 righe nel cap. 11, una riga nel cap. 12, 9 righe nel cap. 13 (questa volta forse per pruderie), 10 righe nel 18, 7 righe nel 22 e una riga e mezza nel cap. 24.
A parte l'episodio della donna nuda si tratta di tagli del tutto ininfluenti. C'è da pensare che siano stati fatti semplicemente per far stare il libro nei suoi sedicesimi. L'idea non è peregrina se si considera che il periodo finale del cap. 5, per nessuna ragione apparente, viene spostato all'inizio del 6. E che il capitolo 14 viene unito al 13, portando così alla fine il conto a 23 capitoli invece che 24. Operazioni prive di senso, a meno che uno non abbia bisogno di risparmiare qualche pagina.

Ma c'è di più. All'inizio del capitolo 2 Nick si mette ai piedi i suoi seventy-dollars Justin boots (T5), che in francese si trasformano in mes bottes à soixante-quinze dollars (D11). Cosa c'è stata in mezzo, l'inflazione? Quando muore Tom, two, three hundred people (T131) si affrettano ad avvisare sua moglie Rose, ma in francese sono trois ou quatre cents personnes au moins (D152). Da dove viene fuori tutta quella gente in più? E perché quando Buck parla di una possibile condanna a thirty, forty years (T46) Duhamel li accorcia in vingt ou trente ans (D57)? Cosa c'è stato nel frattempo, un indulto? E perché quando si tratta di dare tre o quattro calci ben assestati a un cadavere (three or four good swift kicks, T70) questi diventano poi quatre ou cinq bons coups de pied (D84)? Cosa c'è che non va, Duhamel ha dei problemi coi numeri?

Ma soprattutto perché Pop 1280 diventa 1275 âmes? Uno può anche cambiare un titolo di un libro, traducendolo, ma perché cambiare un numero? E poi che fine mai avranno fatto quelle cinque, povere anime che si sono perse nella traslazione dagli Stati Uniti alla Francia? Su questo il mistero rimane. A meno che non abbia ragione Jean-Bernard Pouy. (à suivre)

mercoledì 25 settembre 2013

Pop 1280 (1): la dismisura di Jim Thompson




Jim Thompson – Pop. 1280, Gold Medal, 1964 (Black Lizard, 1990)
Marcel Duhamel (trad.) – 1275 âmes, Série noire 1000, Gallimard, 1966 (Carré noir 337, 1981)
Attilio Veraldi (trad.) – Colpo di spugna, La Gaia Scienza 186, Longanesi, 1983
Jean-Bernard Pouy – 1280 âmes, Baleine, 2000 (Points, 2003)

L'inizio è rabelaisiano. La mattina, appena sveglio, Nick Corey non mangia molto: mezza dozzina di costolette di maiale, qualche uovo fritto e una padella di focaccine con grits and gravy (una sorta di polenta di mais condita col sugo, un piatto tipico del Sud degli Stati Uniti). Poco più tardi esce per prendere un treno e si ferma a mangiare un boccone ovvero una porzione di catfish e un'altra se la porta dietro per il viaggio. Per sicurezza.
Del resto la notte ha dormito poco, gli capita da quando ha tutti questi problemi. Capace che ci mette anche venti, trenta minuti a prender sonno e poi, dopo neanche nove ore, è già sveglio di nuovo.
Tutto il racconto è in prima persona e quindi sappiamo poco del suo aspetto fisico, ma sappiamo che in quanto a donne (pour ce qui est de la chose traduce Duhamel a p. 11, d'ora in poi, per brevità, D11) lui ne aveva sempre avute tante, fin da ragazzino. Al punto che “Nick, mi dicevo tra me e me, dovresti metterci un rimedio, magari difenderti con una frusta o quelle ti consumeranno fino a farti morire”. Tutto questo nelle prime quattro pagine del libro.

C'è una dismisura in tutto questo. Una sproporzione che non è banale vanteria perché, andando avanti, Nick continua a mangiare come un maiale, a dormire non appena mette i piedi su un tavolo e a passare quasi senza sforzo dal letto di Rose Hauck a quello di Amy Mason.
Il racconto è in prima persona e dunque noi siamo lui, stiamo dalla sua parte, crediamo a quel che ci dice (non abbiamo alternative, del resto). In appena quattro pagine siamo precipitati nel mondo di Nick Corey. Che è anche quella cosa che riesce solo ai grandi scrittori.

Certo, a tratti, ci sembra di capire meglio di lui le situazioni, di vedere quel che lui non vede. Ci sembra di avere un margine. Quando si fa prendere a calci da Ken Lacey, quando l'uomo col vestito a scacchi bianchi e neri gli racconta la storia della donna nuda in groppa al pony pezzato, quando Myra lo incastra per farsi sposare e poi si porta un casa un semi-deficiente ben dotato (low-hung) facendolo passare per il suo fratellastro, in tutti questi casi a noi sembra che lui sia proprio uno stupido. Il seguito prova che avevamo torto.

Il fatto è che Nick non vuole del male a nessuno. È lo sceriffo di Pottsville, ma non vuole mettersi in urto con nessuno. “Non posso dire che hai ragione, ma non posso neppure dire che hai torto” è la frase che ripete più spesso, almeno sette volte, durante tutto il libro.
Tutti dicono che è stupido, ma è per questo che lo eleggono. Who wants a smart sheriff? (Thompson, p. 7, d'ora in poi per brevità T7). E poi non puoi prendetertela con me se sono stupido perché they's lots of stupid people in the world (T7).
E poi, non è meglio girare le spalle ai problemi piuttosto che guardarli dritto in faccia? Because me I haven't got no very strong convinctions about anything. Not any more I haven't (T56).

Dunque nessuna convinzione. Se Nick agisce è perché lo costringono a farlo. Quando incontra per la prima volta Myra alla Fiera lui capisce subito che lei ha buggers in her bloomers e chiggers on her figger (T95). Cosa che Duhamel, non riuscendo a conservare le assonanze, rende con fourmis dans les pantalons et des démangeaisons dans le calcif (D113). E che Veraldi, ancor meno immaginativamente, traduce con doveva averci le formiche in quel posto o il fuoco sotto o com'è che si dice (Veraldi p. 88, d'ora in poi, per brevità, V88).
Insomma Nick capisce benissimo che lei ha le mutande in fiamme, ma quel che più lo preoccupa è che, se lui non ci mette un rimedio, quella rischia di metter a fuoco “l'intera Fiera e così ci sarebbe stato il panico e migliaia di persone sarebbero morte nella relativa ressa, per non parlare dei danni alle proprietà” (V88).
E l'unico rimedio che a lui venga in mente è quello di portarla in un albergo. Non è che lui ne abbia una gran voglia. Lo fa solo per evitare “la morte di migliaia di donne e di bambini innocenti” (V88). Capite allora di cosa parlo quando parlo di dismisura.

Ed è così che piano piano, per slittamenti progressivi, questa dismisura si allarga e il mondo di Nick si allontana sempre più dal mondo usuale. Un po' per pretesa idiozia, un po' per arguzia banale, un po' perché il mondo è una merda e Pottsville è il buco del culo del mondo (T209), Nick riesce a convincerci che quel che fa non è uccidere quattro persone e provocare la morte di altre due. Quel che fa è la sua missione sulla Terra. È il Signore a indicargli chi colpire. Lui come al solito non vorrebbe, ma non può sottrarsi al compito. E noi che l'abbiamo seguito fin lì, come potremmo non credergli? (à suivre)

mercoledì 18 settembre 2013

Donna Tartt sulla poltrona del dentista




Sarà capitato anche a voi di avere mal di denti. Certo, mi risponderete voi, ma come possiamo essere sicuri che il nostro mal di denti sia la stessa cosa del tuo mal di denti? Da quando avete letto Wittgenstein (Ricerche filosofiche) siete diventati insopportabili. Sappiatelo. Allora ricominciamo da capo.

Sarà capitato anche a voi di andare dal dentista. L’esperienza in genere non è piacevole, ma posso consigliarvi due o tre regole facili facili per non avere paura e per difendervi dal dolore.
La prima è non guardare e non sapere. Quando lui/lei cerca di spiegarvi con dovizia di particolari quante e quali truculente operazioni intende fare nel vostro cavo orale, voi troncate il discorso e, con il coraggio che solo gli antichi romani sapevano mostrare, dichiarate che volete cominciare subito, sine ulla mora.
A quel punto chiudete gli occhi e rilassatevi. Attorno a voi ci sono trapani sinuosi e acuminati strumenti partoriti dalla fantasia di un trovarobe da B-movie, ma voi non degnateli di uno sguardo. L’orrore sta nell’occhio di chi guarda, sta nell’attesa. La realtà è sempre meno tragica di quel che riusciamo a immaginare.

Il secondo consiglio è: concentratevi sul vostro polpaccio sinistro. Se state bene attenti potete sentire il sangue che scorre al suo interno, potete risalire anche lungo la femorale o scendere giù fino all’alluce del piede. Questo v’impedirà di pensare almeno per un po’ che avete una bocca nella quale sta succedendo chissà cosa. Naturalmente il discorso non cambia se scegliete il destro, di polpacci. Lo dico perché so che siete pignoli. E anche un po’ biondi.

La terza misura è quella decisiva.  Per tutto il tempo della seduta non pensate a niente, sgombrate la testa e recitate un mantra. Avete presente la preghiera incessante di Franny Glass nel racconto di Salinger? Qualcosa del genere. Tranne che la frase da ripetere non deve diventare automatica, sennò perde ogni effetto. Tanto varrebbe allora recitare il rosario con tutti i pater, ave e gloria detti d’un fiato, quasi senza pensare. Il consiglio infatti è di scartare l’italiano. Meglio prendere una frase da una lingua straniera. Così state più attenti. Magari una frase da un libro a cui tenete particolarmente. La imparate a memoria e da quel momento nulla vi potrà più accadere.

Il mio mantra personale dei miei ultimi vent’anni di forzata convivenza col dentista dice così:

The snow in the mountains was melting and Bunny had been dead for several weeks before we came to understand the gravity of our situation.

Bunny, non so se ve lo ricordate, è Edmund “Bunny” Corcoran, quel ragazzetto insopportabile che a un certo punto ricatta Henry e tutti gli altri, tanto che Henry è costretto a portarselo dietro in Italia dove lui (Bunny) si porta dietro, tra le altre cose, una copia della Divina Commedia tradotta da quell’altra rompicoglioni della Sayers e che naturalmente finisce male (sempre Bunny, non la Sayers), ma questo lo sapevamo già, visto che Donna Tartt ce lo dice fin dalla prima riga.
Avete presente di chi sto parlando, no? Oppure volete dirmi che non avete mai letto The Secret History (Knopf, 1992; Dio di illusioni, Rizzoli, 1992)?

Un’ultima raccomandazione. Il mantra va tenuto segreto. Inutile andarlo a raccontare in giro a mezzo mondo, altrimenti smette di funzionare. Infatti io a questo punto dovrò trovarne un altro. Per fortuna il 22 ottobre esce The Goldfinch, il nuovo romanzo di Donna Tartt.

mercoledì 11 settembre 2013

Gli intraducibili (5): American Tabloid



Il realtà il libro di Ellroy è traducibilissimo e infatti è uscito in Italia per la Mondadori.
Il problema è che Ellroy ha uno stile asciutto, quasi scheletrico. La leggenda vuole che, dovendo ridurre White Jazz da 900 a 400 pagine, lui si sia messo lì e abbia tagliato tutti gli articoli e tutto quello che si poteva tagliare senza eliminare una sola frase. Lui poi sostiene che non era White Jazz, ma L. A. Confidential, ridotto da 800 a 635 pagine, ma perché dovremmo credergli? Ellroy scrive così perché vuole scrivere così.
Ellroy ha uno stile martellante. Tutte frasi brevi, una dietro l'altra. Anafore come se piovesse e allitterazioni a ogni canto di strada. Se fosse un brano musicale si direbbe che usa un ritmo sincopato. Se fosse un film avrebbe un montaggio a pezzi brevi. Ma dato che è un testo letterario parliamo di paratassi per asindeto.
Ellroy fa un uso insistito di termini gergali e più in generale della grande, sterminata, spregiudicata varietà lessicale che l'inglese contempla, della sua inesauribile plasticità. Tutto questo in italiano non viene bene. E non è che la traduzione sia scadente. È l'italiano che non regge la sfida.
Provo a fare tre esempi, ma potrei farne trecento:

1) “If he knew he would have fungooed Kemper Boyd.” (Ballantine, 1995, p. 431)
To fungoo è un verbo strano, non proprio di uso comune e non proprio da educande. È esattamente quello a cui state pensando, se state pensando a quella tipica espressione italiana. La versione Mondadori dice: “Se l'avesse saputo, avrebbe silurato Kemper Boyd.” (Oscar Bestsellers 771, 1997, p. 535). Ed è la traduzione giusta, non c'è niente da fare. Ma non è la stessa cosa.

2) “Fulo's car dipsy-doodled across the runaway.” (p. 240)
Doodle vuol dire scemo, sempliciotto. “Yankee Doodle” cantavano le truppe inglesi prima della Rivoluzione per prendere in giro l'esercito yankee. Deriva dal tedesco Dudeln (ovvero suonatore di cornamusa, dudelsack) ed è forse all'origine del termine dude. To doodle vuol dire scarabocchiare disegni a caso, distrattamente, pensando ad altro. To doodle vuol dire procedere a zigzag, anche in maniera losca e circospetta. I doodles sono le varianti (i re-design) del logo di Google.
Dipsy è l'aggettivo derivato di dipso che è la forma breve di dipsomaniac, ubriacone. Dipsy è anche qualcosa a metà tra drunk e tipsy, quindi inebriato, ma non ubriaco fradicio. Nel gergo del football americano dipsy-doodle è la finta. To dipsy-doodle quindi dovrebbe voler dire muoversi non in linea retta, come un ubriaco, apparentemente a caso, ma con l'intento segreto di ingannare chi ti guarda.
La versione italiana dice: “L'auto di Fulo attraversò furtiva la pista di atterraggio” (p. 301). Ed è giusto così. Avrebbe potuto dire di sghimbescio o a scatti e sarebbe andato ugualmente bene. Resta il fatto che l'originale è più ricco, è più evocativo. È un'altra cosa

3) “And for every month you go unfucking-subpoenaed...” (p. 7)
Questa è complicata. In inglese, per chiamarti a testimoniare a un processo, si usa un termine latino: subpoena. Da cui il verbo to subpoena somebody che vuol dire citare qualcuno in giudizio. Naturalmente se non ti fai trovare e il messo del tribunale non può consegnarti il documento, puoi anche andare avanti per un po' e schivare il processo. Finche non ti beccano.
Howard Hughes non vuole presentarsi al processo TWA, per questo il suo sgherro Pete Bondurant lo chiude nel bungalow di un hotel e contemporaneante ingaggia dei sosia e li piazza nei luoghi più disparati d'America, propala leggende su inesistenti viaggi all'estero, insomma fa di tutto perché nessuno possa rintracciarlo. In particolare corrompe i responsabili dell'albergo dando loro, per ogni mese in cui Hughes la fa franca, una ventina di azioni della Hughes Tool Company. Ovvero, dice Pete: “And for every month you go unfucking-subpoenaed I give them twenty shares...”. La traduzione italiana, e non c'è verso è quella giusta, dice: “Per ogni mese che riesci a evitare il mandato di comparizione...” (p. 13).
Ora considerate questo. Pete Bondurant è il tuttofare del miliardario Howard Hughes, ma soprattutto è quello che gli procura la cocaina, l'eroina, la morfina e tutto il resto. Lui, di suo, in realtà farebbe il killer, tant'è vero che un po' di tempo prima ha ammazzato anche il proprio fratello, un medico che procurava aborti illegalmente, ma l'ha fatto senza volere, mentre faceva fuori altra gente. I suoi genitori, quando l'hanno saputo, gli hanno telefonato pregando il cielo che non fosse vero. Qualche giorno dopo l'hanno fatta finita, attaccati al tubo di scarico dell'auto. Quando non smercia droga e non uccide, Pete organizza estorsioni assieme alla sua socia Gail. Lei adesca mariti frustrati in albergo e lui arriva al momento giusto a fotografare la scena. Ora un tipo così non direbbe mai “per ogni mese che riesci a evitare il mandato di comparizione” perché questo è il modo di esprimersi di un avvocato. E Pete non è un maledetto avvocato, he's not a damned lawyer, a sleazy shyster, a shitty mouthpiece, a lousy ambulance chaser, he's a dealer, he's a killer, he's a shakedown artist. Per questo dice “unfucking-subpoenaed”.

A questo punto è chiaro perché, quando dico ai miei amici che American Tabloid è un grandissimo libro, alcuni di loro mi rispondono che sì, effettivamente non è male. Non è colpa loro. Non è colpa della traduzione. Non è colpa di nessuno. È l'ombrello della zia del giardiniere.

lunedì 2 settembre 2013

Dorothy Sayers e il suo Gorgonzola




Dorothy Leigh Sayers se la tira. Non per nulla è stata tra le prime donne inglese a laurearsi a Oxford (nel 1920, prima non era previsto che le donne si laureassero). Non per nulla ha tradotto in inglese La divina commedia, ha scritto poesie, lavori teatrali e saggi d'argomento teologico. Non per nulla è tra le pochissime persone al mondo ad aver usato in un libro la parola ipecacuanha (Clouds of Witness, 1926, Gli occhi verdi del gatto).

Il suo personaggio più famoso si chiama Lord Peter Death Bredon Wimsey. È un celebre bibliofilo, è dotato di una cultura sconfinata, è il migliore giocatore di cricket che sia mai sceso sulla Terra e in più risolve casi criminali, come ogni buon detective dilettante di quel periodo.
Naturalmente è snob. Uncommonly worryin' for him, old chap, commenta, quando gli dicono che suo fratello Gerald è in galera con l'accusa di omicidio (Clouds of Witness).
Naturalmente ama citare poeti e letterati ogni due per tre: I have a quotation for everything – it saves from original thinking, dichiara in Have His Carcase (1932, Alta marea per Lord Peter).
Difficile immaginare la sua faccia. Al suo primo ingresso in letteratura (Whose Body?, 1923, Peter Wimsey e il cadavere sconosciuto) viene presentato così: His long, amiable face looked as if it had generated spontaneously from his top hat, as white maggots breed from Gorgonzola.

In The Nine Tailors (1934, Il segreto delle campane) scopriamo anche che è un notevole campanologo, qualsiasi cosa questo voglia dire. Il che non impedisce a Edmund Wilson di definire il libro: one of the dullest books I have ever encountered in any field (Who Cares Who Killed Roger Ackroyd?). Ma Wilson dice così solo perché non ha mai letto Gaudy Night (1935, misericordiosamente inedito da noi).

A un certo punto Lord Peter sposa Harriet Vane che di mestiere fa la scrittrice di romanzi polizieschi di successo (ma va?). In Busman's Honeymoon (1937, inedito in Italia et pour cause) i due vanno appunto in viaggio di nozze. Si amano, si guardano, si capiscono a un battito di ciglia, si parlano in francese. Quando lui cita il penultimo verso dell'ultima stanza del poema dimenticato di un poeta minore, lei prontamente gli risponde col verso finale. I due sembrano cibarsi di Tennyson a colazione, di Wordsworth all'imbrunire e di Shakespeare il resto del tempo. Da ammazzarli.

Come se non bastasse, Dorothy Sayers ha fatto anche altro nella vita. Dal 1922 al 1931 ha lavorato per l'agenzia di pubblicità S. H. Benson. È lei l'autrice di una fortunata campagna per la senape Colman, nonché di una simpatica quartina che ha come protagonista il Tucano della Guinness.

If he can say as you can
Guinness is good for you
How grand to be a Toucan
Just think what Toucan do



Non so se se ne vergognasse particolarmente, sta di fatto che nel 1933 trova il modo di vendicarsi. Murder Must Advertise, uscito in Italia col titolo vagamente lacaniano di Lord Peter e l'altro, è la storia di un traffico di droga gestito dall'interno di un'agenzia pubblicitaria. 
All advertisers are dope merchants (…) there is a subtle symmetry about the thing which is extremely artistic (p. 204, NEL, 1978).
Ma esiste almeno un fondo di verità nel meccanismo pubblicitario?
Truth in advertising,” announced Lord Peter sententiously, “is like leaven, which a woman hid in three measures of meal. It provides a suitable quantity of gas, with which to blow out a mass of crude misrepresentation into a form that the public can swallow.” (p. 65).
La condanna morale è netta: I think this is an awfully immoral job (p. 48).
Poi, certo, capita che a p. 169 il giornalista Hector Puncheon entri in un pub e dica: Oh I think I'll have a Guinness. (…) Guinnes is good for you – particularly on a chilly morning.
E nel racconto Sleuths on the Scent capita di leggere la seguente frase: Another man, with his hat and Burberry on, was ordering Guinness.
Capita infine che in Strong Poison (1930, Veleno mortale) si trovi quest'altro accenno: At 11 o'clock Boyes had a Guinness, observing that, according to the advertisements, it was 'Good for you' (p. 14, NEL, 1977).
Saranno coincidenze, certo. E poi, chi sono io per accusare Dorothy Leigh Sayers di fare della pubblicità occulta?

lunedì 26 agosto 2013

Gli intraducibili (4): For Whom the Bell Tolls





Avevo letto in italiano Per chi suona la campana di Hemingway all’epoca del liceo e m’era sembrato un bel libro. L’ho ritrovato recentemente in edizione originale (Penguin, 1955) e ho scoperto che:


1) Hemingway fa parlare tutti gli spagnoli come se fossero dei personaggi della Bibbia (Thou shalt not kill) o di una tragedia di Shakespeare (“I am a fool. Thou art nothing” Re Lear, I, 4). La storia si ambienta sulle montagne tra Madrid e Segovia. Quei poveri montanari analfabeti probabilmente parlavano un dialetto scarsamente comprensibile. Ma quel perfetto burino americano di Hemingway (a cui hanno dato il Nobel e a Graham Greene no) pensa che si tratti di un antico castigliano, il castigliano usato da Quevedo. Quando si dice la cultura!

Per questo tutto il libro è disseminato di (stavo per dire littered with) espressioni come: How do they call thee? (p. 7 e 22) What hast thou in the stomach? (p. 18) Until thou hadst horses thou wert with us. Now thou art another capitalist more. (p. 19) Hast thou seen what thou needest? (p. 39) Thou wilt blow no bridge here. (p. 53). Robert e Maria sono soli, infilati nel sacco a pelo, e lui le dice: Thou art very beautiful now. (...) Thou hast a lovely body. (p. 156) Potrei andare avanti così per pagine e pagine. Thinkest thou that thy entry carries importance? (p. 253) If thou hadst seen it thou woudst not call it a novel. (p. 284). Oh, I love thee very much. Thou and thy whisky I could not have. What a pig thou art. (p. 325) Thou, Sanchez. Thou commandest in my place. (p. 356). Thou understandest (...). (p. 378). I will do as thou orderest. (p. 385).

Va da sé che tutti questi dialoghi sono tradotti in italiano corrente e quindi il lettore italiano non può rendersi conto di nulla.


2) Quel perfetto buzzurro americano di Hemingway (a cui hanno dato il Nobel e a Borges no) decide inoltre di intercalare alcune espressioni tipiche spagnole, giusto per buttarla un po’ sul pittoresco, e per fare questo le traduce alla lettera.

Menos mal diventa così Less bad (p. 17, 62, 138, 145 e 275). Fue un placer si trasforma in I received a pleasure (p. 44). ¿Te divertiste anoche? viene reso con Did you divert yourself last night? (p. 77). ¡Qué barbaridad! diviene What a barbarity! (p. 47) o in alternativa How barbarous! (p. 114). E alla fine la migliore di tutte: ¿Qué pasa contigo? che trionfalmente e più volte viene tradotto con What passes with thee? (p. 88, 214, 215 e 296).

Ora, voi lo sapete, a me non piace battere attorno al cespuglio (to beat around the bush), a me piace parlare tacchino (to talk turkey), sciogliermi i capelli (to let my hair down), scendere giù fino ai pomelli d’ottone (to get down to brass tacks), fare un petto pulito di tutto questo (to make a clean breast of it) e, se solo Hemingway fosse ancora vivo e scalciante (alive and kicking), non esiterei a dargli un pezzo della mia mente (a piece of my mind) e a dirgli che questa è una delle cose più stupide che abbia mai letto in vita mia.

Va da sé che nella versione italiana tutto questo non si nota.


3) Quel perfetto bifolco americano di Hemingway (a cui hanno dato un Nobel non per l’opera nel suo complesso, ma per un unico libro di cento e qualcosa pagine, intitolato Il vecchio e il mare) probabilmente non sapeva lo spagnolo o quantomeno non riteneva importante essere preciso con lo spagnolo. Lo si deduce dal fatto che scrive aburmiento invece di aburrimiento (p. 46), Arriba España! Invece di ¡Arriba España! (p. 109),  siga invece di sigue (p. 229), déjamos invece di déjame (p. 258), aguantarse invece di aguantar (p. 282), aspesar invece che a pesar (p. 392). Senza contare coma fué, como so fuera, mat, qué pa che potrebbero essere dei semplici refusi.

Va da sé che nella versione italiana (quasi) tutti questi errori vengono corretti e quindi non si percepiscono.


4) Nel libro tutti i possibili termini offensivi o volgari sono cancellati. Ovvero, come dicono gli inglesi, il libro sembra bowdlerizzato. Ma non si tratta di censura, è stato lo stesso Hemingway a scriverlo così nella speranza di riuscire a venderlo al pubblico più ampio dei Book Club. E così per tutto il testo troviamo insopportabili espressioni del tipo: you lazy drunken obscene unsayable son of an unnameable unmarried gypsy obscenity (p. 35), go then unprintably to the campfire with your obscene dynamite (p. 46) unprintable hunger (p 46), care for thy umprintable dynamite (p. 47), where the un-nameable is this vileness I am to guard? (p. 91), then go and befoul thyself (p. 91), go and obscenity thyself (pp. 204 e 420), go and befoul them (p. 208), where the obscenity have you been? (p. 262), to obscenity with all fascism good (p. 269), obscenity them, oh God and the Virgin, befoul them (p. 282), go defile thyself (p. 285), oh muck my grandfather and muck this whole treacherous muck-face mucking country (...) (p. 349), I obscenity in the midst of the holy mysteries that I am alone (p. 352), go obscenity yourself (p. 374), obscene your trasmission (p. 388), obscenity thy orders (p. 389). E poi la migliore di tutte: go the unprintable and unprint thyself (p. 47). È la migliore perché ci vorrebbe McLuhan per capire come si fa a “distipograficizzarsi”. O ci vorrebbe almeno l’Arcivescovo di Costantinopoli.

Come se non bastasse c’è tutta la serie di me cago en la leche, un’espressione comune in Spagna con riferimento ai genitori (me cago en la leche de tus padres) o alla madre (me cago en la leche de tu puta madre) in cui leche sta per latte materno, ma sta anche a significare sperma. In italiano si può rendere con al diavolo, all’inferno oppure me ne frego di... Quel genio di Hemingway la traduce alla lettera e poi la censura. Il risultato è che abbiamo I obscenity on the milk (p. 262), I obscenity on the milk of your tiredness (p. 91) ...on the milk of your fathers (p. 109)... on the milk of your Republicanism (p. 109)... on the milk of the Republic (p. 118)... on the milk of thy shame (p. 136)... on the milk of all of you (p. 137) ... on the milk of thy cowardice (p. 207)... on the milk of science (p. 407). Senza contare alcune raffinate varianti come I besmirch on the milk of thy duty (p. 91) e I un-name on the milk of their motors (p. 91).

La cosa è tanto più strana se si considera che nel libro compaiono comunque alcune parole scorrette. Abbiamo damned gun a p. 254 e damned careful a p. 350. Abbiamo un god-damn a p. 171, un son of a bitch a p. 427, più tutta una serie di whore (pp. 294 e 406) e di hell (pp. 57, 91, 168, 388 e 420). Dunque non è hell la parola incriminata. Evidentemente è fuck. Il che è dimostrato chiaramente a pagina 353 dove si parla di fornicating wire (che viene tradotto in italiano con porci fili), ma soprattutto a pag. 294 dove troviamo la frase The fornicator ducked back. Il termine censurato qui sarebbe fucker ovvero stupido, stronzo, volendo essere casti si potrebbe rendere con “quel maledetto”. La cosa purtroppo sfugge anche alla traduttrice italiana che traduce piatta piatta: Quel fornicatore è stato svelto a buttarsi giù (Mondadori, 1996, p. 331). Ora, immaginate la scena. Siamo durante la guerra civile spagnola, un montanaro analfabeta spara al nemico, lo manca perché quell’altro si accuccia e lui, con tutto l’aplomb del mondo, arriva a dire: Affé mia, quel fornicatore s’è mostrato ben svelto di gambe. Neanche fossimo in uno sketch dei Monty Python!

Va da sé che di tutta questa bowdlerizzazione nella versione italiana non c’è traccia.




5) Ora, io non ce l’ho coi traduttori. È dal giorno in cui mi sono trovato a fare il traduttore che ho smesso di prendermela con i traduttori. So che è un mestiere duro. Tendenzialmente non un mestiere per gente perbene. La traduttrice di Per chi suona la campana per Mondadori, Maria Napolitano Martone, ha fatto un ottimo lavoro. Ha fatto esattamente quel che bisognava fare. Certo, tradurre I befoul myself in the milk of the springtime (p. 91) con Io caco nel sugo della primavera (p. 101 dell’edizione italiana) non è stata esattamente un’idea brillante, ma non è colpa sua se l’originale è così ridicolo.

Dirò di più, Maria Napolitano Martone non solo ha fatto un ottimo lavoro, ma è riuscita addirittura a migliorare il libro. Considerate questa frase: “È vero che faremo saltare un ponte e poi dovremo scappare da questi monti come cani fottuti?” (p. 51). Secco e asciutto come solo Hemingway sa essere, vero? Peccato che l’originale dica così: “[Is it true] That we blow up an obscene bridge and have to obscenely well obscenity ourselves off out of these mountains?” (p. 47).

Eppure, con tutto questo, il libro è stato tradotto bene. O meglio è stato tradotto nell’unico modo possibile. È questa la tragedia.