giovedì 17 ottobre 2013

Thomas Pynchon: Blunt Not Bleeding




In un certo senso Bleeding Edge (Penguin, 2013), il nuovo libro di Thomas Pynchon, è William Gibson Meets Bret Easton Ellis.
Lester Traipsie viene ucciso al penultimo piano del Deseret e Maxine Tarnow lo rivede a p. 199 in giro per New York. Il giorno dopo va dall’analista e nella sala d’aspetto trova uno che assomiglia ad Alex Trebek, ma che in realtà è Conkling Speedwell. E questo è American Psycho nella sua essenza.
Maxine si tuffa ogni tanto nelle profondità di DeepArcher (pronunciato come departure, come lo tradurranno in italiano? DeepArtita? DeesTacco? SheesMa? RoamyTaggio?... più probabilmente lo lasceranno così com’è) uno spazio protetto, un’isola di libertà all’interno di Internet, un gnessulógo, letteralmente, un’utopia. E questo è Neuromancer quasi trent’anni dopo.


Il che non sarebbe grave. La cosa disarmante è un’altra.


Scriveva Musil circa ottanta anni fa:
“(…) venne in mente [a Ulrich] che la legge di questa vita a cui si aspira oppressi sognando la semplicità non è se non quella dell'ordine narrativo, quell'ordine normale che consiste nel poter dire: «Dopo che fu successo questo, accadde quest’altro». Quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione, come direbbe un matematico, l'opprimente varietà della vita; infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! Beato colui che può dire «allorché», «prima che» e «dopo che»! Avrà magari avuto tristi vicende, si sarà contorto dai dolori, ma appena gli riesce di riferire gli avvenimenti nel loro ordine di successione si sente così bene come se il sole gli riscaldasse lo stomaco. (…) Nella relazione fondamentale con se stessi, quasi tutti gli uomini sono dei narratori. Non amano la lirica, o solo di quando in quando, e se anche nel filo della vita si annoda qualche «perché» o «affinché», essi esecrano ogni riflessione che vada più in là; a loro piace la serie ordinata dei fatti perché somiglia a una necessità, e grazie all'impressione che la vita abbia un «corso» si sentono in qualche modo protetti in mezzo al caos. E Ulrich si accorse di aver smarrito quell'epica primitiva a cui la vita privata ancora si tien salda, benché pubblicamente tutto sia già diventato non narrativo e non segua più un «filo» ma si allarghi in una superficie sterminata.” (L’uomo senza qualità, Einaudi, 1972, cap. 122, pp. 629-30)

Detto tra parentesi, negli stessi anni avremmo avuto il principio d’indeterminazione di Heisenberg (1927) e il teorema di Gödel (1931).



Per questo, proprio perché è scomparsa quell’epica primitiva e perché tutto si è allargato in una superficie sterminata, per questo Leni Pökler può dire:
“Not produce. (...) Not cause. It goes all along together. Parallel, not series. Metaphor. Signs and symptoms. Mapping to different coordinate systems.” (Gravity’s Rainbow, Picador, 1983, p. 159)

E per questo, a maggior ragione, Roger Mexico può dire:
“The next great breakthrough may come when we have the courage to junk cause-and-effect entirely, and strike off at some other angle.” (p. 89)

In questo senso Gravity’s Rainbow non è un libro fondamentale solo perché Pynchon sa scrivere o perché è un romanzo multiforme, ironico, divertente, pieno di personaggi singolari. È un grande libro perché è caotico e corale, perché è privo di un centro, perché assume in sé e cerca di rendere le articolazioni della complessità.

Detto tra parentesi, in quegli stessi anni avremmo avuto la teoria dei sistemi complessi (vedi su questo Morris Mitchell Waldrop, Complessità, Istar, 1996). Un sistema complesso è un sistema sufficientemente grande, sufficientemente robusto, caratterizzato da processi di feedback positivi e negativi e da fenomeni di auto-organizzazione spontanea. In cui non esiste un centro e in cui tutto è in relazione con tutto. Dunque, totalmente deterministico, ma anche essenzialmente imprevedibile. Ovvero, non più una singola causa a cui corrisponde un singolo effetto, ma una concomitanza di cause che sovradetermina una costellazione di effetti. E questi a loro volta che retroagiscono sulle cause.
La vita, in questo senso, è un sistema complesso, così come la Borsa, il mondo dell’informazione, le perturbazioni atlantiche e ovviamente Internet che quindi è, per definizione, incontrollabile.

Tutto questo per dire che Bleeding Edge è una delusione. È un libro in cui la protagonista, Maxine Tarnow, è in scena dall’inizio alla fine. In cui tutto quel che vediamo è quel che passa attraverso il suo sguardo. Un libro pieno zeppo di riferimenti alla cultura pop di inizio secolo e di citazioni di ristoranti newyorkesi (qui è di nuovo il côté Easton Ellis a spuntare fuori, ma senza il suo sanguinoso distacco).
Un libro in cui la tradizionale paranoia di Pynchon si trasforma in banale complottismo. C’è una differenza sostanziale tra paranoici e complottisti. Entrambi pensano che tutto sia collegato a tutto, ma i secondi credono che questo abbia una spiegazione semplice. I complottisti cioè sono convinti che la SPECTRE esista realmente e che Ernst Stavro Blofeld abbia davvero un gatto persiano a cui tiene moltissimo. I complottisti sono come i bambini che per dormire hanno bisogno di farsi raccontare la favola di Babbo Natale. Un individuo, al soldo della Toys 'R' Us, che vive in promiscuità con delle renne clonate.
Così dobbiamo sentirci dire che l’11 settembre è stato un inside job, organizzato per giustificare l’avvio di una guerra globale al terrorismo ecc... (oh, please, not again).
E che Internet non è altro che un sistema di controllo perché nasce, forse non lo sapevate, dalle ceneri di ARPAnet, una rete concepita dal Pentagono per assicurarsi una continuità nelle comunicazioni in caso di attacco nucleare. Gee, Tommy, it’s like, we really  didn’t know that.
Essenzialmente, il difetto di Bleeding Edge è quello di essere una storia lineare. Piena di «allorché», «prima che» e «dopo che». Tanto che, in alcuni momenti, ci si sente così bene come se il sole ci riscaldasse lo stomaco.



In New Rose Hotel, un racconto di Gibson di una trentina di anni fa, c’è un personaggio di nome Fox che è alla ricerca ossessiva del Margine.
“The Edge was Fox’s grail, that essential fraction of sheer human talent, nontransferable, locked in the skulls of the world’s hottest research scientists.” (Burning Chrome, Grafton, 1988, p. 124)

Quello spicchio essenziale di puro, non trasferibile talento umano che Thomas Pynchon possedeva e che ora sembra aver perso.

La verità è che un bordo ha sempre due lati. Da una parte c’è il margine della ferita che sanguina (bleeding), dall’altra c’è il filo della lama che taglia. Un filo che in questo caso è smussato (blunt). Da cui il titolo di questo post.

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