venerdì 24 aprile 2015

Libri letti ultimamente FAN-GAR



FAN-GAR


Fante, John
The Brotherhood of the Grape (1977) – Wine of Youth (racconti, 1985)

Come si fa a non amare John Fante? Soprattutto dopo aver letto Chiedi alla polvere e Aspetta primavera, Brandini. Dopo aver letto tutto quello che ha scritto, comprese le cose meno riuscite come Dreams from Bunker Hill. Poi arrivi alla fine e apri con trepidazione The Brotherhood of the Grape e un po’ ti dispiace perché è l’ultimo, è l’unico che ti manca. E scopri che è la storia di uno scrittore di origine italiana con un padre alcolista, scorbutico e fumatore di Toscanelli e con una madre eternamente piangente, ma bravissima a cucinare spaghetti e pollo alla cacciatora. E poi vieni a sapere che il padre, ormai anziano, vuole metter mano alla sua ultima opera di mastro muratore e quindi costringe il figlio scrittore ad aiutarlo ecc... Possibile che John Fante non abbia mai parlato d’altro? Possibile che in tutta la sua vita abbia scritto sempre lo stesso libro?


Fearing, Kenneth
The Big Clock / No Way Out (1946) – The Generous Heart (1954)

Francis Lacassin, nel suo Mythologie du roman policier (10/18, 1974, 2 voll.), dedica un intero capitolo a Kenneth Fearing. In particolare di The Big Clocks scrive: “chef-d’oeuvre déjà oublié d’un americain inconnu”. I francesi adorano queste cose. Se dai loro discorsi critici elimini le espressioni “capolavoro dimenticato” e “genio misconosciuto”, non rimangono che due o tre preposizioni articolate, tre avverbi, più l’aggettivo incontournable. In realtà Kenneth Fearing non era un genio, però scriveva poesie ed era anche mezzo comunista e questo è quel che basta a un critico francese medio per lasciarsi andare all’iperbole. The Big Clock, è vero, è un buon libro (l’hanno portato al cinema un paio di volte). Poi quando leggi anche The Generous Heart scopri che sono costruiti tutti e due allo stesso modo: ogni capitolo ha la sua voce narrante. Questa variabilità del punto di vista permette di imbrogliare bene la trama, di nascondere gli indizi, insomma, di tenere il lettore in sospeso tra quel che gli dicono e quel che succede realmente. Dunque Kenneth Fearing è bravo, è da leggere, è uno scrittore interessante, mais pas tellement.


Fogwill, Rodolfo Enrique
Muchacha Punk (racconto, 1980)

Fogwill lavorava in pubblicità quando il successo di questo racconto breve lo convinse a dedicarsi al più duro e ingrato mestiere di scrittore. Poteva anche risparmiarselo.



Franco, Jorge
Rosario Tijeras (1999)

Sullo sfondo ci sono i narcos. In primo piano c’è lei Rosario Tijeras, donna fatale, perduta, assassina (con le forbici, naturalmente), tenera amante ecc... Il romanzo dovrebbe essere un thriller mozzafiato e sanguinolento (in Colombia ne hanno fatto pure una serie tv), in realtà è semplicemente una storia d’amore. Il caso è classico, lui ama lei, ma lei ama l’amico di lui. Il fatto che i due maschi del trio vengano da famiglie borghesi, mentre lei è una malafemmena, rende il tutto un po’ ovvio. Vediamo tutto dal punto di vista del maschio sfigato, quello che arriva a rovinarsi la vita pur di restarle accanto. E questo spegne un po’ la tensione. Ma il personaggio di Rosario è di quelli che non si dimenticano.




Fuguet, Alberto
Tinta roja (1998)

Alberto Fuguet è cileno, dunque è sudamericano, dunque scrive libri con gli uccelli che parlano e i vecchi che non muoiono mai (il realismo magico di García Márquez, per intenderci). Tutto sbagliato. Allora ricominciamo da capo. Alberto Fuguet è cileno e scrive libri sul Cile attuale, così come capita in tutti i paesi del mondo. Questo è la storia di un apprendista giornalista di nera che vorrebbe diventare scrittore. Fuguet è bravo ad andare avanti per flash, tra ammazzamenti, suicidi, bassezze varie e sprezzanti dichiarazioni di cinismo. Memorabile il personaggio di Faúndez, il capocronaca, quello che tiene nel cruscotto le foto dei morti ammazzati per andare, di lì a qualche settimana, a portarli alle vedove col dichiarato intento di consolarle a letto. Esiste tutta una letteratura oltre García Marquez. E in diversi casi è anche buona.



García Márquez, Gabriel
Noticia de un secuestro (1996) – Memoria de mis putas tristes (2004)

Ok, García Márquez è quello che scrive libri con gli uccelli che parlano e con i vecchi che non solo non muoiono mai, ma non smettono neppure a ottant’anni di scopare. Però quanto è bravo a scrivere. Memorias de mis putas tristes è il suo ultimo romanzo è non è tra le sue cose migliori, ma prendete un libro come Noticia de un secuestro. Di fatto è un reportage su un caso di cronaca e quindi è pieno zeppo di personaggi reali. Per un colombiano saranno tutti famosi, ma un non colombiano fa fatica a seguirli. Eppure lo leggi lo stesso d’un fiato. (Gabo da giovane faceva il giornalista e si sente).

venerdì 17 aprile 2015

Libri letti ultimamente DUJ-EMA




DUJ-EMA


Dujardin, Édouard
Les lauriers sont coupés (1888)

James Joyce ammette di essersi ispirato, per la tecnica del monologo interiore, al libro di Dujardin Les lauriers sont coupés. Questo basta a ritagliare per Dujardin un luogo nella storia della letteratura. Peccato che il libro sia di una noia mortale. Il monologo interiore (in particolare un libro tutto scritto in monologo interiore) ha un grosso difetto: tutto quello che veniamo a sapere della storia proviene da un’unica fonte: dalla voce narrante. Tutto quel che sappiamo, allora, è che il protagonista è perdutamente innamorato dell’attrice Lea D’Arsay, una donna che lui ama e rispetta. Si vedono a casa di lei, vanno in giro in carrozza, ma lui non la tocca neanche con un dito perché lei è un angelo, un essere superiore. Soltanto a metà libro cominciamo a capire che in realtà questa è una stronza assetata di denaro che si fa praticamente mantenere da quell’idiota del protagonista, mettendogli anche le corna, ma senza concedergli neanche un bacio o un’effusione un po’ ardita. Solo che a quel punto il libro si è già liquefatto e la vostra capacità di sopportazione è ormai giunta al limite.


Einstein, Charles
The Bloody Spur / While the City Sleeps (1953)

È chiaro che con un cognome così fai fatica a farti prendere sul serio come scrittore. Tant’è vero che il suo fratellastro Albert è stato costretto a farsi chiamare Albert Brooks per poter cominciare la sua carriera di attore (con Taxi Driver di Scorsese, no less). Ma Charles forse non ha mai avuto grandi aspettative riguardo alla storia della letteratura. La sua vera passione è stata il giornalismo. The Bloody Spur (che nel 1956 Fritz Lang portò al cinema col titolo Quando la città dorme) è effettivamente un giallo con tanto di serial killer, è vero. Ma quel che vi resta in mente alla fine è l’intreccio di interessi, corruzione e meschinità che si scatena nella redazione di un giornale. Alla fine del libro ne saprete di più su come gestire le notizie via telex, come si fa una ribattuta, come si compone un titolo a tutta pagina. Del colpevole della vicenda, il Lipstick Killer, non vi ricorderete neanche il nome.


Ellman, Richard
James Joyce (1959, rev. 1982)

Le biografie sono fatte così, nel raccontare la vita di un genio non si fermano davanti a nulla, nemmeno alla lista dei calzini da mandare in lavanderia (cfr. Woody Allen, The Metterling Lists). Del resto è così che si arriva a 744 pagine (più 68 di note). Per esempio, chi è che nel 1922 va a Cannes a comprare delle cravatte per Joyce? Robert McAlmon. E chi è Robert McAlmon? È l’amante di Hilda Doolittle, il primo marito di Bryher, l’autore di Being Geniuses Together, nonché primo dattilografo per Joyce del monologo finale di Molly. Son cose che, quando le sai, ti possono cambiare la vita.
Ma dalla lettura del libro di Ellman si evincono anche altre cose, più importanti di questa. Per esempio che Joyce era umanamente uno stronzo. Uno che prendeva i soldi in prestito da tutti senza la minima intenzione di ridarli indietro. Così, giusto perché lui era un genio e gli altri no. Si scopre anche che molte delle cose che avevi letto nell’Ulisse e che non avevi capito (e ti eri sentito un cretino) in realtà non nascondevano significati reconditi e profondi. Erano soltanto dei banali riferimenti alla vita di Joyce, alle persone di sua conoscenza. In particolare, se c’era qualcuno che gli aveva fatto uno sgarbo o gli era semplicemente antipatico lui lo puniva mettendolo nel libro sotto la luce peggiore possibile. Neanche fosse Dante con La divina commedia.
Si scopre anche che non a tutti il libro era piaciuto subito. La prima edizione dell’Ulisse uscì in tre versioni. Un centinaio di copie in Holland paper, firmate dall’autore, al costo di 350 franchi; 150 copie in vergé d’arches da vendere a 250 franchi e 750 copie in carta più ordinaria al prezzo di 150 franchi. La copia che comprò Bryher (ovviamente quella autografa, Bryher era miliardaria) oggi la trovate in vendita presso Jonkers.co.uk alla modica cifra di 250.000 sterline. George Bernard Shaw invece non fu così lungimirante. “Sono un anziano gentiluomo irlandese,” scrisse in risposta alla lettera di Sylvia Beach. “E se lei pensa che un qualunque irlandese, per non parlare di un anziano irlandese, sia disposto a spendere 150 franchi per un libro, vuol dire che conosce poco i miei connazionali.” E quando gli fecero notare che anche Ezra Pound ne aveva comprata una copia, Shaw rispose seccamente: “I take care of the pence and let the Pounds take care of themselves”.


Emar, Juan
Ayer (1935) – Un año (1935) – Miltín 1934 (1935)

Álvaro Yáñez Bianchi, alias Juan Emar, nasce a Santiago del Cile il 13 novembre 1883, dunque è cileno. “Todo el mundo en Chile es chileno, es algo desesperante.” (Miltín 1934, p. 36). Juan Emar nasce a Santiago e nasce bene, visto che il padre è il fondatore del giornale La Nación. Questo gli permette di andare a vivere a Parigi, come segretario dell’ambasciata, e poi tornare in patria e fare il critico d’arte di un giornale (naturalmente La Nación). È qui che nasce il suo pseudonimo Jean Emar (poi Juan Emar) sul calco dell’espressione francese “j’en ai marre”. Nel 1935 improvvisamente pubblica tre romanzi: Ayer, Un año e Miltín 1934. Le reazioni critiche sono straordinarie. Non ne parla nessuno. Come se l’intera classe dei critici letterari cileni fosse stata colta da un conato d’irreprimibile imbarazzo e di riserbo. Di lì in poi, se si eccettua una raccolta di racconti del 1937, in tutta la sua vita, volontariamente, non pubblicherà più nulla. Come se si fosse stancato di tutto e di tutti. J’en ai marre. Alla sua morte, a Santiago, l’8 aprile 1964, verrà ritrovato il testo incompleto del romanzo che s’era messo a scrivere in quei trent’anni di silenzio. Un testo di appena 5318 pagine. Io possiedo soltanto la prima parte di questo lavoro, El globo de cristal, che conta soltanto 1113 pagine. Non appena avrò un attimo di tempo mi metterò anche a leggerlo.
Cosa dire dei tre libri che ho letto di Emar? Che condivido l’imbarazzo dei critici cileni dell’epoca. Difficile catalogarlo in un genere. Difficile capire dove volesse andare a parare. Però ci sono alcune cose che mi restano ben chiare in mente. E sono le seguenti.
1) Uno struzzo può ingoiare letteralmente una leonessa ed evacuarla di lì a poco quasi senza soffrire.
2) Gli uomini esistono per attraversare vetrine. E una volta attraversate, consumare film bibite e oggetti vari. Se non esistessero le vetrine l’umanità si disperderebbe ai quattro punti cardinali e affogherebbe rapidamente negli oceani o lentamente nelle sabbie dei deserti.
3) Dichiarazione di poetica ripresa da Baudelaire: “À chaque lettre de créancier, écrivez cinquante lignes sur un sujet extra-terrestre et vous serez sauvés”. (Emar era ricco e non ha mai avuto problemi di creditori, nonostante questo ha scritto spesso su argomenti extraterrestri).
4) Antofagasta è una città fatta esclusivamente di lana.
5) Dio assicura che non sono mai giunte alle sue orecchie le preghiere degli uomini e che le voci sentite da Giovanna d’Arco non erano Sue, né di nessuno dei suoi familiari. Dio ha due fratelli e una sorella. Nessuno dei suoi fratelli crede che Dio sia Dio.
6) Se andate alla Taberna de los Descalzos e scendete nei bagni, troverete degli orinatoi con cinque fori di scolo messi a croce. L’abilità sta nel passare ciclicamente sui quattro fori esterni senza mai colpire quello centrale. Ma se per caso sul terzo foro va a posarsi una mosca allora potrete sperimentare una regressione universale, si spalancherà di fronte a voi un abisso spazio-temporale al fondo del quale tutto vi verrà rivelato e tutte le verità si presenteranno chiare e limpide ai vostri occhi. Disgraziatamente, tornando a casa, non ne ricorderete neppure una.




sabato 11 aprile 2015

Libri letti ultimamente DIF-DOO


DIF-DOO


Di Filippo, Paul
Ribofunk (racconti, 1996) – Scab’s Progress (con Bruce Sterling, racconto, 2000) – Shipbreaker (racconto, 2002) – Neutrino Drag (racconto, 2004)

Scriveva Roland Barthes che quel che accomuna Sade, Fourier e Loyola è il fatto che tutti e tre fossero dei fondatori di lingue, prima ancora che di utopie, sacrifici o supplizi. Questo problema investe anche qualsiasi scrittore di fantascienza che, nell’immaginare un futuro, si trova costretto a inventarsi anche le parole che vadano assieme a quel futuro. Con l’aggravante che il loro lettore vive invece in questo presente e che quindi avrà bisogno sempre di qualche spiegazione per qualunque neologismo. Qui si gioca la riuscita o meno di ogni scrittura fantascientifica. Questo per dire che Philip Dick e William Gibson sì. Sterling e Egan a tratti. Paul Di Filippo con fatica.
Di Filippo costruisce un suo mondo pieno di organismi geneticamente inediti, in cui va considerato umano chi possiede almeno un 51% di patrimonio genetico umano (ibridato comunque con pezzi di altri animali). Chi è sotto il 51% è soltanto uno “spice” e dunque uno schiavo. Poi Di Filippo usa “eft” per dire dollari, “dirty harry” per poliziotto ecc... Il suo guaio è che non sa dove fermarsi. Ci sono intere frasi in cui le uniche parole di inglese corrente sono “if”, “then” e “watermelon”. E questo affatica la lettura (per non parlare dell’eventuale traduttore). Di Filippo è bravo a inventare, ma esagera. Come direbbero gli americani: “too much of a good thing”.


Dodge, Jim
Fup (1983)
Il nonno ha 99 anni e beve solo Ol’ Death Whisper, un whisky fatto in casa che lo rende immortale (o almeno così gli ha detto l’indiano che in punto di morte gli ha dato la ricetta). Tiny è il nipote e passa il tempo a costruire staccionate e a lottare contro il suo nemico mortale, un cinghiale di nome Lockjaw. Fup è un’anatra selvatica (Fup duck. Do you get it? Fucked Up) e si rifiuta di volare. Al drive-in ci vanno perché Tiny e il nonno amano i western (ma il nonno sta sempre dalla parte dei banditi), mentre Fup preferisce i film romantici. Poi Fup muore e risorge, Lockjaw muore e basta, Tiny smette di costruire staccionate e Jake, il nonno, muore il giorno dopo aver compiuto un secolo. E il suo ultimo pensiero prima di morire è “Well goddamnit, I was immortal till I died”.
Ma questo non è niente (è l’opera prima di Jim Dodge, lunga una cinquantina di pagine appena). Piuttosto vi consiglio (I suggest you, I urge you, I beg you, I implore you) di leggere Not Fade Away e soprattutto Stone Junction. An Alchemical Potboiler, un libro nel quale potrete anche scoprire come si fa a diventare invisibili. Non vi stupirà sapere che la prefazione gliel’ha scritta Thomas Pynchon.


Dominique, Antoine Louis
Le Gorille et le barbu (1955) – Le Gorille se mange froid (1955)
Prolifico è dire poco. Tra il ‘54 e il ‘61 riesce a scrivere più di 50 romanzi. Anno di grazia è il 1956 quando ne fa uscire uno al mese. Nel 1978 riparte con una collana tutta sua (edita da Plon) nella quale pubblica soltanto 21 nuovi titoli in sei anni. Chissà forse la vecchiaia.
Il suo protagonista è una “barbouze”, una spia un po’ ruspante (è così grande e grosso che lo chiamano il Gorilla), ancora lontana dai gadget tecnologici di 007, immersa in un mondo uscito da poco da una guerra mondiale in cui tutte le spie di tutti i paesi si conoscono per nome e si rispettano l’un l’altra.. Fa quasi tenerezza leggerlo ora, col suo gergo un po’ démodé, con i suoi tentativi mal riusciti di darsi uno stile originale (la nuit était picasseé d’étoiles), con le sue note a pie’ pagina per spiegare cos’è un Rosbiff, cos’è la Boite, cos’è un walkie-talkie. Insomma è un po’ naif, un po’ sempre tutto uguale, ma si lascia leggere. E poi perché mai dovrei giustificarmi se mi piacciono i libri di A. L. Dominique?


Doolittle, Hilda
Asphodel (1922) – End to Torment (1958) – The Gift (1960) – Tribute to Freud (1956)
Se cercate dei ragionieri in questa storia o almeno degli avvocati o dei medici, andrete delusi. Hilda Doolittle, poetessa, nasce a Bethlehem, Pennsylvania, il 10 settembre 1886. Al college conosce Williams Carlos Williams, si fidanza con Ezra Pound, poi, quando quello lascia gli Stati Uniti, s’innamora di Frances Josepha Gregg (studentessa di belle arti e futura poetessa). Arrivata a Londra ritrova Ezra Pound e diventa amica di D.H. Lawrence, ma il rapporto finisce male (H.D./D.H. era una storia nata male, fin dalle iniziali). Nel 1913 sposa Robert Aldington, poeta, qualche anno più tardi fa una figlia con Cecil Gray, musicista. La figlia si chiama Perdita e durante la Seconda guerra mondiale sarà una delle ragazze di Bletchley Park, il luogo in cui lavorava Alan Touring (se avete visto il film The Imitation Game, sapete di cosa sto parlando). Uno dei figli di Perdita, Nicholas Schaffner, sarà musicista, giornalista, nonché autore di libri sui Beatles e i Pink Floyd. Non c’è niente da fare, non c’è nessuno in questa storia che non abbia del talento, quello che si chiama “the gift”.
Nel ’19 Hilda conosce Bryher (Annie Winifred Ellerman), scrittrice e miliardaria. Sarà una relazione che durerà più di trent’anni. Una relazione che passa a tre quando Bryher sposa nel ’21 Robert McAlmon, scrittore, poeta, nonché autore del libro Being Geniuses Together (niente di meno). Nel ’27 Bryher, in capo a tre mesi, divorzia da McAlmon per sposare Kenneth McPherson, scrittore, fotografo e futuro regista. Il nuovo ménage à trois è particolarmente fertile perché vede la nascita di Close Up, la prima rivista di cinema al mondo che si basi sul presupposto che il cinema sia una forma d’arte (all’epoca non era così evidente). McPherson fonda anche una casa cinematografica, The Pool Group, e realizza vari cortometraggi, più un film di finzione, Borderline (1930) di cui Hilda è protagonista (vedi foto). McPherson dopo la guerra andrà a vivere a Capri, assieme al suo amante Algernon Islay de Courcy Lyons, fotografo. Alla sua morte, nel 1971, verrà sepolto a Cetona. La sua biblioteca personale verrà acquisita (grazie a Michele Canosa) dalla Biblioteca della Cineteca di Bologna “Renzo Renzi” (chiedete ad Anna Fiaccarini o a Cesare il permesso per consultarla).




Agli inizi degli anni ’30 Hilda Doolittle va in analisi, ma lei che è amica di Havelock Ellis (psicologo e sessuologo) non va da un analista qualunque, va direttamente dal numero uno: Sigmund Freud. Il resoconto che Doolittle pubblica nel 1956 è un capolavoro di reticenza. Freud è affascinato dalla cultura e dal talento di H.D., ma soprattutto è interessato alla sua bisessualità. Di tutto questo non c’è traccia nel libro. Di sesso non si parla mai. Hilda parla di miti greci, statuette etrusche, banalità familiari (Freud amava i cani, ma odiava i gatti: “sono come le scimmie, non ci danno la soddisfazione di essere come noi, né di essere i nostri nemici”). A un certo punto s’inventa una palla micidiale su delle figure che avrebbe visto materializzarsi su un muro di una stanza in Grecia, ma non dice nulla delle sue pulsioni sessuali. Parla volentieri della sua infanzia (ma di quella ne avevamo già abbastanza dopo aver letto The Gift). Parla anche di Pound (Freud si dice convinto che sarebbe stato capace di aiutarlo), anche se poi Pound non credeva alla psicanalisi. “Ti sei messa nella porcilaia sbagliata. Ma ne puoi sempre uscire fuori” dice a Hilda quando lei gli comunica di aver iniziato l’analisi. Ma, di nuovo, sul suo rapporto con Pound sapevamo già tutto dopo aver letto End to Torment. O meglio, non sapevamo granché visto che le sue reticenze anche qui sono colossali a partire dal fatto che ogni volta che Hilda scrive di essere stata fidanzata con Pound non manca mai di virgolettare la parola. Anche se poi è innegabile che sia stato lui a lanciarla, a troncarla nel nome e nel cognome, a trasformare la giovane e inesperta Hilda Doolittle nella celebre “H.D. Imagiste”.
Del suo rapporto con Pound ci sono tracce anche in Asphodel che è in realtà un roman à clef con Pound che diventa George Lowndes, Aldinton che si chiama Darrington e Bryher che diventa Beryl de Rothfeld. Il romanzo copre il periodo che va dall’arrivo di Hilda in Europa fino alla nascita di Perdita, ma naturalmente non è un romanzo convenzionale. È piuttosto un procedere per iterazioni ossessive, per echi letterari e linguistici, per immagini pure (la ragazza non per niente è Imagiste).
Siamo arrivati alla fine della storia e non ho accennato, se non di sfuggita, a quella che è stata la sua attività centrale, la poesia (ma per leggerla basta andare su Project Gutemberg). È che Hilda ha avuto una vita intensa, È sopravvissuta a due guerre, ha sofferto problemi fisici e mentali, ha viaggiato per il mondo, è andata a letto indifferentemente con uomini e donne, ha studiato i miti greci dell’antichità e ha esplorato le possibilità della moderna arte cinematografica, infine ha scavato profondamente nei confini della sua arte, la poesia. Credo che alla fin fine si sia divertita.

sabato 4 aprile 2015

Libri letti ultimamente COO-DAV


COO-DAV



Coover, Robert
Noir (2010)

Il noir è un genere troppo serio per lasciarlo in mano agli intellettuali. Robert Coover è quello di Whatever Happened to Gloomy Gus of the Chicago Bears? e soprattutto quello della Babysitter. Dunque è bravo a scrivere. Il suo amore per il genere noir non è in dubbio. La sua capacità di calco è quasi prodigiosa. Frase per frase, paragrafo per paragrafo qui non c’è nulla che sfigurerebbe in un romanzo hard-boiled classico. Peccato che la femme fatale che, nel primo capitolo, entra nell’ufficio del detective per ingaggiarlo, poi muoia già nel capitolo secondo. E poi torni in vita nel terzo per essere di nuovo la vittima sui cui indagare nel capitolo numero quattro. Fino a metà libro ho pensato che, forse, leggendo il tutto a capitoli alternati, sarei riuscito a trarne fuori un qualche senso. Fino a due terzi ho coltivato la speranza che Coover, con un colpo di mano, riuscisse nel finale a raccogliere il filo della narrazione in un qualche superiore disegno, imperscrutabile e geniale. Sono arrivato alla fine e ho pensato quel che ho scritto qui all’inizio: il noir è un genere troppo serio per lasciarlo in mano agli intellettuali.


Cortázar, Julio
Divertimento (1949) – Alguien que anda por ahí (1977) – Fantomas contra los vampiros multinacionales (1977) – Un tal Lucas (1979) – Queremos tanto a Glenda (1980) – Deshoras (1982)

È difficile trovare una foto di Cortázar in cui lui non avesse in bocca una sigaretta, una pipa, un sigaro. Lo so erano altri tempi. Quando bisognava alzar la voce col Tribunale Russell per far sapere a tutto il mondo degli orrori della dittatura argentina. Io ho fatto un fioretto: quello di arrivare a leggere tutto quello che ha scritto Cortázar in vita sua. Perfino quell’esordio zoppicante che è Divertimento. Perfino quando fa troppo l’intellettuale e diventa insopportabile (Un tal Lucas). Ma se non avete mai letto niente di suo, vi consiglio di cominciare con Rayuela. Che è quel gioco che si fa disegnando dei quadrati col gesso sul marciapiede e poi saltandoci sopra a zoppo galletto. E che in italiano dovrebbe essere “Campana”. Anche se poi viene tradotto con “Il gioco del mondo”. E che in inglese invece si traduce con Hopscotch, che è anche il titolo di un film di Ronald Neame, interpretato da Glenda Jackson. E noi vogliamo tanto bene a Glenda.


Crumley, James
One to Count Cadence (1969) – Dancing Bear (1983) – Hot Springs (racconto, 1996) – Hostages (racconto, 2002)

One to Count Cadence è la storia di un gruppo di soldati americani nelle Filippine (poi in Vietnam) che bevono come delle spugne, quando non vanno a troie. E che, quando non vanno a troie, fanno a botte come delle bestie. So, what’s new? È possibile che nel ’69 il romanzo di Crumley abbia destato scalpore per la violenza dello stile, oggi sembra un po’ datato e noioso (vedi le lunghe discussioni sull’etica dell’uccidere). Dancing Bear, invece, ha come protagonista il detective privato Milodragovitch, cocainomane, alcolista e psicopatico. Tutte le donne che incontra se lo vogliono portare a letto. Tutti i cattivi che incontra lo vogliono far fuori. Entrambe le cose per ragioni non immediatamente comprensibili. So what’s new? James Crumley è morto nel 2008 e molti ancora si chiedono come mai non abbia mai avuto il successo che secondo loro chiaramente meritava. Io no.


Daly, Carroll John
The False Burton Combs (racconto, 1922) – The Game Guy (racconto, 1925) – Lurking Shadows (racconto, 1926) – The Third Murderer (1931) – Just Another Stiff (1936) – Better Corpses (1940) – The Giant Has Fleas (racconto, 1947)

Come tutti sanno, il primo racconto del genere hard-boiled non è stato scritto da Hammett o da Chandler, bensì da Carroll John Daly. Negli anni Venti dicono che il suo nome in copertina garantisse un 10% in più di vendite per la rivista “Black Mask”. Ora, mi domanderete voi, come mai nessuno si ricorda più di lui? Provate a leggere i suoi romanzi, vi rispondo io. Nei tre che ho letto il protagonista è Race Williams, detective privato, svelto come un fulmine a sparare, neanche fossimo nel vecchio West. Lei è Florence Drummond, “The Flame, The Girl with the Criminal Mind”, a tratti un’innocente verginella e a tratti una femme fatale, spietata e priva di scrupoli. Insomma siamo in pieno feuilleton ottocentesco. Hammett era migliaia di chilometri più avanti.


Davis, Norbert
Red Goose (racconto, 1934) – The Price of a Dime (racconto, 1934) – The Rag-Tag Girl (racconto, 1936) – The Case of the Greedy Guardian (racconto, 1936) – Dead Man’s Chest (racconto, 1936) – Something for the Sweeper (racconto, 1937) – You’ll Die Laughing / Do a Dame a Favor? (racconto, 1940) – Holocaust House (racconto, 1940) – The Mouse in the Mountain / Rendezvous with Fear / Rich Dead Little Girl (1943) – Sally’s in the Alley (1943) – A Penny Saved Is Not Much (racconto, 1945) – Oh, Murderer Mine (1946)

Puoi essere uno scrittore mediocre o un genio, puoi comporre capolavori misconosciuti o illeggibili piattezze, ma se per caso uno dei maggiori filosofi del Novecento scrive a un amico americano che gli piacciono i tuoi racconti, quella è l’etichetta che ti resta addosso. Norbert Davis è, e sarà per sempre, lo scrittore che piaceva a Wittgenstein. Poi, Norbert Davis non è stato né un mediocre, né un genio, ma un buon praticante del genere. In particolare la serie che ha come protagonisti Doan e Carstairs è decisamente piacevole e percorsa da un umorismo deadpan, molto cerebrale. (Sarà questo che piaceva a Ludwig?). Doan è basso, grassottello e sveglio. Carstairs è grosso, imponente e taciturno. Più che altro Carstairs è un cane danese.
All’inizio di The Mouse in the Mountain, Doan si presenta dichiarando di essere un detective. “Ma non ne ha l’aria,” gli fa notare Janet Martin. “Chiaro che no,” risponde lui. “Sono in incognito, cerco di farmi passare per un turista”. “Ma allora perché va a dirlo in giro a tutti?” insiste Janet. “Il mio travestimento è così perfetto che nessuno si accorgerebbe che sono un detective se non glielo dicessi io, allora naturalmente glielo dico.” Ecco, io me l’immagino, e siamo solo a pagina tre, me l’immagino Wittgenstein che appoggia il dito inumidito sull’angolo del foglio per passare rapidamente a pagina quattro. E sorride.