venerdì 25 ottobre 2013

La mala vita di Vila-Matas





Rita Malú è nata a Parigi in rue de Marseille, ma è andata a vivere nel quartiere Malakoff perché è lì che abita la celebre artista Sophie Calle, il suo idolo, il suo modello, l’oggetto della sua ossessione. Rita le assomiglia anche un po’, tranne che nella statura (Rita è più alta). È per questo che gira ingobbita. È per questo che espone nella galleria di rue de Marseille dei lavori che vorrebbero assomigliare alle novelas de pared di Sophie. Rita si annoia.

Un giorno decide di trasformare la sua casa nell’ufficio di un investigatore privato. Si fa anche mettere una porta a vetri con su scritto “Rita Spade, detective”. I suoi annunci sul giornale non le portano clienti. “Qué aburrimiento” dice Rita. Sta quasi per abbandonare il progetto quando le si presenta una donna che cerca lo scrittore Jean Turner, il suo ex-marito, che dovrebbe trovarsi a Pico, un’isola delle Azzorre, ma che da tempo non si fa sentire. In realtà Rita capisce subito che la donna non è per nulla l’ex-moglie, ma solo una che ha perso la testa per (la foto sul risvolto de)i libri dell’autore. Nonostante questo compra i libri di Turner, li legge e decide di partire per le Azzorre. La notte prima di partire sogna una casa in cima a un promontorio, tutta dipinta di rosso, e un uomo anziano che apre la porta della casa.

Arrivata a Faial resta bloccata per il maltempo, ma si gode quei pochi giorni di passaggio bivaccando al Peter’s Bar, il bar dei vecchi balenieri. Non appena il tempo lo permette raggiunge l’isola di Pico, anche se non ha più nessuna voglia di cercare lo scrittore. Una volta sbarcata trova due tassisti nel porto, uno vecchio e uno giovane. Ma questo lo sapeva già perché l’aveva letto in uno dei libri di Turner. Sceglie il vecchio e si fa portare da lui al Museo delle Balene di Lajes. Che trova chiuso. Ma questo lo sapeva già perché gliel’avevano detto a Faial. Di ritorno verso il porto, già pronta ad abbandonare l’impresa, vede in cima a un promontorio una casa tutta dipinta di rosso. Una casa identica a quella che aveva sognato. Scende a terra, bussa alla porta e si trova davanti un uomo anziano. Un uomo identico a quello che aveva sognato. Identico a Turner, ma di cinquant’anni più vecchio. Non sapendo che dire, Rita gli chiede se la casa è in vendita.

L’uomo anziano le risponde di sì, ma le consiglia di non comprarla. “Questa casa è abitata da un fantasma.”
Un attimo di silenzio.
“E di chi è questo fantasma?” chiede Rita.
“Il suo” risponde l’uomo.

***

L’autore confessa di aver scritto questo racconto su commissione. Era stata la stessa Sophie Calle a chiederglielo. Un giorno lei gli aveva telefonato e si erano dati appuntamento al Flore a Parigi. L’idea era che lui scrivesse un racconto con la promessa che poi lei si sarebbe impegnata a viverlo, avrebbe seguito in tutto e per tutto le indicazioni dell’autore per trasferire nella realtà quel che lui aveva immaginato. Aveva già proposto la stessa cosa a Paul Auster, ma poi la cosa era finita in nulla, aveva aggiunto Sophie.

L’autore non se lo fa dire due volte e si mette al lavoro. In due settimane scrive El viaje de Rita Malú e lo spedisce per posta elettronica. Sophie non risponde. Il tempo passa e l’autore s’innervosisce, ha un blocco di creatività, non scrive più nulla se non appunti su un suo diario personale. Seguono una serie di ostacoli. La mail dell’autore era finita nello spam, poi muore la madre di Sophie, poi la Biennale di Venezia le affida un incarico importante. Sophie continua a dichiarare di essere attratta dal progetto, ma per un motivo o per l’altro l’orizzonte s’allontana. Seguono scambi di mail, incomprensioni, incontri fugaci al Salone del Libro a Parigi. Segue un intervento che l’autore subisce a causa di un’insufficienza renale che quasi rischiava di farlo andare in coma. Intanto lui non scrive.

Prova a reagire. Prende a caso le prime righe del suo diario e decide di metterle in pratica, di provare a viverle, di essere lui a fare quell’esperimento che Sophie sembra così renitente a fare.
Il diario inizia così: “Amanece en mi cuarto de las ventanas altas cuando, al inaugurar este cuaderno rojo de notas o diario que escribiré desde Barcelona y otras ciudades nerviosas, me pregunto cuál es mi nombre, quién escribe, y se me occurre che mi cuarto es como una cavidad craneal de la que surjo como un ciudadano inventado...”
Ma come diavolo si fa a vivere delle frasi del genere che non sono altro che letteratura?
Allora va avanti nella lettura, ripercorre i suoi appunti, arriva al momento in cui, pensando a Sophie Calle, ha cominciato a inventarsi una storia. La storia di un’artista famosa che si mette in contatto con lui, che gli da appuntamento a Parigi e che gli chiede di scrivere una storia che lei si sarebbe poi impegnata a vivere. E poi le mail che non tornano, i ritardi, le incomprensioni e tutto il resto.
“Perché ho inventato tutto questo?” si domanda l’autore. Forse proprio perché lei non me l’ha mai chiesto, porque ella no lo pidió.




Porque ella no lo pidió è un racconto di Enrique Vila-Matas che compare nella raccolta Exploradores del abismo (Anagrama, 2007).
Poi il racconto non finisce così, ma non vi dico come finisce. Resta il fatto che c’è una distanza abissale tra la letteratura e la vita e che Vila-Matas soffre e rifugge l’attrazione di quell’abisso che è la vita, di quello che lui chiama ese tenebroso agujero que llamamos vida. Il titolo del post, l’ammetto, è un po’ sforzato (non esiste una buona letteratura contrapposta a una mala vita), ma il quasi anagramma m’è parso subito irresistibile.

Resta il fatto che ogni volta che leggo qualcosa di Enrique Vila-Matas mi convinco di aver a che fare col più grande scrittore vivente. Poi chiudo il libro, rientro nella vita reale, mi rituffo nel mio abisso. In qualche modo torno sobrio. Capisco di aver esagerato. Ma non di tanto.
Non di tanto.

giovedì 17 ottobre 2013

Thomas Pynchon: Blunt Not Bleeding




In un certo senso Bleeding Edge (Penguin, 2013), il nuovo libro di Thomas Pynchon, è William Gibson Meets Bret Easton Ellis.
Lester Traipsie viene ucciso al penultimo piano del Deseret e Maxine Tarnow lo rivede a p. 199 in giro per New York. Il giorno dopo va dall’analista e nella sala d’aspetto trova uno che assomiglia ad Alex Trebek, ma che in realtà è Conkling Speedwell. E questo è American Psycho nella sua essenza.
Maxine si tuffa ogni tanto nelle profondità di DeepArcher (pronunciato come departure, come lo tradurranno in italiano? DeepArtita? DeesTacco? SheesMa? RoamyTaggio?... più probabilmente lo lasceranno così com’è) uno spazio protetto, un’isola di libertà all’interno di Internet, un gnessulógo, letteralmente, un’utopia. E questo è Neuromancer quasi trent’anni dopo.


Il che non sarebbe grave. La cosa disarmante è un’altra.


Scriveva Musil circa ottanta anni fa:
“(…) venne in mente [a Ulrich] che la legge di questa vita a cui si aspira oppressi sognando la semplicità non è se non quella dell'ordine narrativo, quell'ordine normale che consiste nel poter dire: «Dopo che fu successo questo, accadde quest’altro». Quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione, come direbbe un matematico, l'opprimente varietà della vita; infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! Beato colui che può dire «allorché», «prima che» e «dopo che»! Avrà magari avuto tristi vicende, si sarà contorto dai dolori, ma appena gli riesce di riferire gli avvenimenti nel loro ordine di successione si sente così bene come se il sole gli riscaldasse lo stomaco. (…) Nella relazione fondamentale con se stessi, quasi tutti gli uomini sono dei narratori. Non amano la lirica, o solo di quando in quando, e se anche nel filo della vita si annoda qualche «perché» o «affinché», essi esecrano ogni riflessione che vada più in là; a loro piace la serie ordinata dei fatti perché somiglia a una necessità, e grazie all'impressione che la vita abbia un «corso» si sentono in qualche modo protetti in mezzo al caos. E Ulrich si accorse di aver smarrito quell'epica primitiva a cui la vita privata ancora si tien salda, benché pubblicamente tutto sia già diventato non narrativo e non segua più un «filo» ma si allarghi in una superficie sterminata.” (L’uomo senza qualità, Einaudi, 1972, cap. 122, pp. 629-30)

Detto tra parentesi, negli stessi anni avremmo avuto il principio d’indeterminazione di Heisenberg (1927) e il teorema di Gödel (1931).



Per questo, proprio perché è scomparsa quell’epica primitiva e perché tutto si è allargato in una superficie sterminata, per questo Leni Pökler può dire:
“Not produce. (...) Not cause. It goes all along together. Parallel, not series. Metaphor. Signs and symptoms. Mapping to different coordinate systems.” (Gravity’s Rainbow, Picador, 1983, p. 159)

E per questo, a maggior ragione, Roger Mexico può dire:
“The next great breakthrough may come when we have the courage to junk cause-and-effect entirely, and strike off at some other angle.” (p. 89)

In questo senso Gravity’s Rainbow non è un libro fondamentale solo perché Pynchon sa scrivere o perché è un romanzo multiforme, ironico, divertente, pieno di personaggi singolari. È un grande libro perché è caotico e corale, perché è privo di un centro, perché assume in sé e cerca di rendere le articolazioni della complessità.

Detto tra parentesi, in quegli stessi anni avremmo avuto la teoria dei sistemi complessi (vedi su questo Morris Mitchell Waldrop, Complessità, Istar, 1996). Un sistema complesso è un sistema sufficientemente grande, sufficientemente robusto, caratterizzato da processi di feedback positivi e negativi e da fenomeni di auto-organizzazione spontanea. In cui non esiste un centro e in cui tutto è in relazione con tutto. Dunque, totalmente deterministico, ma anche essenzialmente imprevedibile. Ovvero, non più una singola causa a cui corrisponde un singolo effetto, ma una concomitanza di cause che sovradetermina una costellazione di effetti. E questi a loro volta che retroagiscono sulle cause.
La vita, in questo senso, è un sistema complesso, così come la Borsa, il mondo dell’informazione, le perturbazioni atlantiche e ovviamente Internet che quindi è, per definizione, incontrollabile.

Tutto questo per dire che Bleeding Edge è una delusione. È un libro in cui la protagonista, Maxine Tarnow, è in scena dall’inizio alla fine. In cui tutto quel che vediamo è quel che passa attraverso il suo sguardo. Un libro pieno zeppo di riferimenti alla cultura pop di inizio secolo e di citazioni di ristoranti newyorkesi (qui è di nuovo il côté Easton Ellis a spuntare fuori, ma senza il suo sanguinoso distacco).
Un libro in cui la tradizionale paranoia di Pynchon si trasforma in banale complottismo. C’è una differenza sostanziale tra paranoici e complottisti. Entrambi pensano che tutto sia collegato a tutto, ma i secondi credono che questo abbia una spiegazione semplice. I complottisti cioè sono convinti che la SPECTRE esista realmente e che Ernst Stavro Blofeld abbia davvero un gatto persiano a cui tiene moltissimo. I complottisti sono come i bambini che per dormire hanno bisogno di farsi raccontare la favola di Babbo Natale. Un individuo, al soldo della Toys 'R' Us, che vive in promiscuità con delle renne clonate.
Così dobbiamo sentirci dire che l’11 settembre è stato un inside job, organizzato per giustificare l’avvio di una guerra globale al terrorismo ecc... (oh, please, not again).
E che Internet non è altro che un sistema di controllo perché nasce, forse non lo sapevate, dalle ceneri di ARPAnet, una rete concepita dal Pentagono per assicurarsi una continuità nelle comunicazioni in caso di attacco nucleare. Gee, Tommy, it’s like, we really  didn’t know that.
Essenzialmente, il difetto di Bleeding Edge è quello di essere una storia lineare. Piena di «allorché», «prima che» e «dopo che». Tanto che, in alcuni momenti, ci si sente così bene come se il sole ci riscaldasse lo stomaco.



In New Rose Hotel, un racconto di Gibson di una trentina di anni fa, c’è un personaggio di nome Fox che è alla ricerca ossessiva del Margine.
“The Edge was Fox’s grail, that essential fraction of sheer human talent, nontransferable, locked in the skulls of the world’s hottest research scientists.” (Burning Chrome, Grafton, 1988, p. 124)

Quello spicchio essenziale di puro, non trasferibile talento umano che Thomas Pynchon possedeva e che ora sembra aver perso.

La verità è che un bordo ha sempre due lati. Da una parte c’è il margine della ferita che sanguina (bleeding), dall’altra c’è il filo della lama che taglia. Un filo che in questo caso è smussato (blunt). Da cui il titolo di questo post.

venerdì 11 ottobre 2013

Pop 1280 (4): Jean-Bernard Pouy manca il bersaglio




Jim Thompson – Pop. 1280, Gold Medal, 1964 (Black Lizard, 1990)
Marcel Duhamel (trad.) – 1275 âmes, Série noire 1000, Gallimard, 1966 (Carré noir 337, 1981)
Attilio Veraldi (trad.) – Colpo di spugna, La Gaia Scienza 186, Longanesi, 1983
Jean-Bernard Pouy – 1280 âmes, Baleine, 2000 (Points, 2003)

E comunque il mistero rimane. Un libro può anche cambiare nome da una lingua a un'altra. A volte perché la traduzione letterale del titolo è già stata usata e farebbe confusione. A volte perché il direttore marketing vuol mostrare di essere creativo e vuol fare confusione. A ognimmodo a nessuno verrebbe mai in mente di far uscire in Italia un libro intitolato I sette moschettieri, Venticinque anni dopo o Le mille e tre notti. I numeri normalmente restano uguali. Allora perché mai Maurice Duhamel decide di passare da 1280 abitanti a 1275? Che fine hanno fatto quei cinque poveri desaparecidos?

Questo è quello che si chiede Pierre de Gondol nel romanzo di Jean-Bernard Pouy. O meglio, è quello che chiede uno sconosciuto che entra nel negozio di Pierre de Gondol. Perché lui non è un detective, è un bouquiniste, un venditore di libri usati, ma molto spesso la ricerca di un libro andato perduto è tanto appassionante quanto la ricerca di un assassino.
Pierre si mette subito al lavoro e scopre l'episodio che Duhamel ha tagliato, quello dell'uomo col vestito a scacchi e della donna nuda sul pony pezzato. Aggiungete a questi il controllore del treno e abbiamo già trovato tre dei cinque personaggi scomparsi. Di lì in poi, però, invece di andare a scavare nel passato di Marcel Duhamel, il nostro eroe parte per gli Stati Uniti dove dà mostra di tutta la sua fighetteria da grenouille e di tutta la sua cinefilia raffinata (cita anche con le lacrime agli occhi Two Lane Blacktop di Monty Hellman, uno dei film preferiti di Franco La Polla). E chiude alla fine il libro con una soluzione che non serve a niente e non convince nessuno. In realtà si capisce benissimo che non sapeva come chiuderlo.

Il fatto è che Pouy scrive troppo (novanta libri circa in trent'anni). Oulipista convinto, riempie i suoi libri di riferimenti cifrati, omaggi nascosti, strizzate d'occhio, toccatine di gomito, “lingua sulla guancia” (tongue-in-cheek come dicono gli americani), insomma tutto il repertorio di tic nervosi tipici di un intellettuale francese.
Jean-Bernard Pouy, sia chiaro, è convinto che esistano anche forme di vita intelligente al di fuori di un libro, ma non tante. Non è al livello Enrique Vila-Matas che pensa che la vita reale sia poco più di una nota a pie' pagina nella storia della letteratura, ma ci va vicino. Con la differenza, poi, che Vila-Matas è un grande scrittore. Pouy un po' meno.
Io continuo a preferire i suoi romanzi anni Ottanta come Nous avons brûlé une sainte, Le cinéma de papa, Suzanne et les ringards. Per non parlare di quel brusco, acerbo e fulminante esordio intitolato Spinoza encule Hegel (Baleine, 1983). E per non parlare dell'intera serie che ha come protagonista Gabriel Lecouvreur, dit Le Poulpe.

Resta il fatto che scrive troppo. Qui aveva tra le mani un soggetto strepitoso (un mistero letterario che si trasforma in detection) e se l'è lasciato sfuggir via come un principiante. Tutta la parte americana del libro non è giustificata da nulla se non dal fatto che Iris, la fidanzata di Pierre De Gondol, è in quel momento in giro per gli Stati Uniti con una compagnia teatrale. E quindi a un certo punto i due si ritrovano in Texas. “On a mangé, bu et fait la bête à deux dos en emmerdant Jim Thompson, l'Art théâtral, les States, le Texas et les cinquante autre Etats” (p. 160). Ovvero hanno fatto la bestia a due schiene. Vous voyez le topo ou voulez-vous que je vous fasse un dessin?

Questa espressione l'avevo già trovata in San-Antonio e pensavo l'avesse inventata lui. Serge Le Doran, Frédéric Pelloud e Philippe Rosé, nel loro Dictionnaire San-Antonio (Fleuve Noir, 1993), la includono tra le 1252 espressioni usate da Frédéric Dard per indicare le varie posizioni amorose.
Ma mi sbagliavo. Perché l'inventore è in realtà Rabelais.
“(...) et fasoient eux deux souvent ensemble la beste à deux doz, joyeusement se frotans leur lard” sta scritto all'inizio del terzo capitolo di Gargantua.
Avevo iniziato questa serie di post con Rabelais. Era giusto chiudere con lui.

sabato 5 ottobre 2013

Pop 1280 (3): a ognimmodo, Attilio Veraldi




Jim Thompson – Pop. 1280, Gold Medal, 1964 (Black Lizard, 1990)
Marcel Duhamel (trad.) – 1275 âmes, Série noire 1000, Gallimard, 1966 (Carré noir 337, 1981)
Attilio Veraldi (trad.) – Colpo di spugna, La Gaia Scienza 186, Longanesi, 1983
Jean-Bernard Pouy – 1280 âmes, Baleine, 2000 (Points, 2003)

Nick Corey parla male. È un ragazzone ignorante di un insignificante paesino nel sud degli Stati Uniti, quindi parla male. Poi ogni tanto gli scappa qualche termine giuridico tecnico (you got guilty knowledge, T148; laying a predicate for justifiable assault, T129) e la gente lo guarda con due occhi così per la sorpresa. In realtà Nick non è così ignorante come vuol far credere. You're no ignoramus, Nick. Why do you talk like one? (T92) gli chiede a un certo punto Amy. E Nick le spiega che lo fa per abitudine. Lo fa perché questo è quel che gli altri si aspettano da lui.

E dunque Nick dice natcherly per naturally, riddicerlous per ridicolous, perlite per polite, shadder per shadow, figger per figure, vicey-versa per vice versa, yaller per yellow, hawgs per hogs e dawgs per dogs. Ken Lacey, che sarà pure sceriffo di una contea più grande della sua, ma è comunque un perfetto cafone, dice pitchers invece di pictures, shorely invece di surely, hypocritical invece di hypothetical, prob'ly invece di probably, idjit invece di idiot, kee-reck invece di correct e pre-zackly invece di precisely. Senza contare poi Uncle John che parla come Mamie in Via col vento.

Rendere tutto questo in italiano non è facile. I francesi da questo punto di vista hanno la fortuna di possedere un argot riconosciuto nazionalmente e letterariamente rispettabile. Noi italiani, ogni volta che ci proviamo, caschiamo nel termine regionalistico, quando non dichiaratamente dialettale. Basta troncare una finale (che stai a fa'?) e sembra subito romano. Basta togliere un non (quello lì capisce niente) e suona subito settentrionale. Da questo punto di vista Veraldi nella sua traduzione di Pop 1280 fa miracoli.

Certo, quando usa termini come fetenzia, mazzate, settati, pittando o acchittato suona un tantino meridionale. Canchero come sostituto di heck è addirittura troppo letterario. Ma è felicissimo l'uso di che mi cechino al posto di god-dang. Veraldi fa veri miracoli. Gli riescono soprattutto quando raddoppia qualche consonante qua e là. Quando s'inventa ognimmodo o eggià. Molto meno quando ci prova con riddicolo, con natturale che più che sporcature della lingua sembrano refusi sfuggiti ai correttori. E comunque Veraldi fa miracoli anche perché lui, oltre che traduttore, è uno scrittore vero. Andate a ripescare La mazzetta (Rizzoli, 1976) e vous m'en direz des nouvelles.

La prima cosa che fa Veraldi è conservare la narrazione al passato (Duhamel aveva volto tutto al presente) sapendo benissimo di andare incontro a tutti quei rovinosissimi passati remoti come flettei, arrivasti, premette, ammorbammo, indovinaste, disfecero che impestano la lingua italiana. Ma lui è così bravo che schiva quasi sempre l'ostacolo. Solo verso la fine gli scappano un te la scopasti (V153) e un voi impediste (V156) che gridano vendetta al cielo, ma sono dettagli.

La seconda cosa che fa è anche l'unica risorsa sensata per sporcare la lingua evitando il dialetto: l'uso dell'indicativo al posto del congiuntivo. E così troviamo frasi come credo che forse te lo devo dire prima (V67), pareva proprio che stavo per diventare (V90), credo che hai ragione (V105), meglio che [Rose] assume qualche aiuto (V146), immagino che ho sempre bisogno di sonno (V166), ecc... Sono errori comuni, transregionali, capaci comunque di abbassare il tono del linguaggio.

Certo, anche lui le sue cantonate le prende. First things first (T69) non si può tradurre con prima le prime cose (V64). A quarter section (T70) è una misura agraria pari a 160 acri e quindi non si può rendere con Il terreno tutt'intorno, un buon quarto di esso, era... (V65). The last month before election (T64) vuol dire il mese prima delle scorse elezioni non il mese scorso prima delle elezioni (V60). Il mese scorso non ci sono state elezioni a Pottsville. E soprattutto if you can't lick 'em, join 'em (T164) non significa se-non-puoi-leccarli-unisciti-a-loro (V149). Questa proprio non la salterebbe un cavallo!

A ognimmodo mi cechino se la sua traduzione non è più sobria, calibrata e precisa di quella di Duhamel. Faccio un esempio. A un certo punto Nick si sente poeta e dunque pronto a scrivere poems about piss tinkling in pots and jaybirds with the bots and assholes tying knots (T184). Duhamel, che è francese e non si trattiene, traduce con les clapotis de la pisse dans le pot de chambre, les pies-borges dans les scaphandres, les trous du cul en palissandre (D210). Difficile credere che quel buzzurro di Nick Corey conosca il significato di termini come scaphandres e palissandre. Duhamel deve aver preso un rimario alla voce -andre e di lì in poi ha pensato di mostrare l'evidente e chiara superiorità della lingua francese su tutte le altre lingue del mondo. Io invece me l'immagino Veraldi che sorride sornione e quatto quatto, quasi senza dare nell'occhio, si mette lì e scrive: poesie sulla piscia che scroscia sugli orinali e sugli uccelli nei temporali e sui pirla coi genitali (V167).
Non puoi battere un traduttore onesto, nemmeno se ti chiami Marcel Duhamel. (à suivre)