Rita Malú è nata a Parigi in rue de Marseille, ma è andata a
vivere nel quartiere Malakoff perché è lì che abita la celebre artista Sophie
Calle, il suo idolo, il suo modello, l’oggetto della sua ossessione. Rita le
assomiglia anche un po’, tranne che nella statura (Rita è più alta). È per
questo che gira ingobbita. È per questo che espone nella galleria di rue de
Marseille dei lavori che vorrebbero assomigliare alle novelas de pared di Sophie. Rita si annoia.
Un giorno decide di trasformare la sua casa nell’ufficio di
un investigatore privato. Si fa anche mettere una porta a vetri con su scritto
“Rita Spade, detective”. I suoi annunci sul giornale non le portano clienti.
“Qué aburrimiento” dice Rita. Sta quasi per abbandonare il progetto quando le
si presenta una donna che cerca lo scrittore Jean Turner, il suo ex-marito, che
dovrebbe trovarsi a Pico, un’isola delle Azzorre, ma che da tempo non si fa
sentire. In realtà Rita capisce subito che la donna non è per nulla
l’ex-moglie, ma solo una che ha perso la testa per (la foto sul risvolto de)i
libri dell’autore. Nonostante questo compra i libri di Turner, li legge e
decide di partire per le Azzorre. La notte prima di partire sogna una casa in
cima a un promontorio, tutta dipinta di rosso, e un uomo anziano che apre la
porta della casa.
Arrivata a Faial resta bloccata per il maltempo, ma si gode
quei pochi giorni di passaggio bivaccando al Peter’s Bar, il bar dei vecchi
balenieri. Non appena il tempo lo permette raggiunge l’isola di Pico, anche se
non ha più nessuna voglia di cercare lo scrittore. Una volta sbarcata trova due
tassisti nel porto, uno vecchio e uno giovane. Ma questo lo sapeva già perché
l’aveva letto in uno dei libri di Turner. Sceglie il vecchio e si fa portare da
lui al Museo delle Balene di Lajes. Che trova chiuso. Ma questo lo sapeva già
perché gliel’avevano detto a Faial. Di ritorno verso il porto, già pronta ad
abbandonare l’impresa, vede in cima a un promontorio una casa tutta dipinta di
rosso. Una casa identica a quella che aveva sognato. Scende a terra, bussa alla
porta e si trova davanti un uomo anziano. Un uomo identico a quello che aveva
sognato. Identico a Turner, ma di cinquant’anni più vecchio. Non sapendo che
dire, Rita gli chiede se la casa è in vendita.
L’uomo anziano le risponde di sì, ma le consiglia di non
comprarla. “Questa casa è abitata da un fantasma.”
Un attimo di silenzio.
“E di chi è questo fantasma?” chiede Rita.
“Il suo” risponde l’uomo.
***
L’autore confessa di aver scritto questo racconto su
commissione. Era stata la stessa Sophie Calle a chiederglielo. Un giorno lei
gli aveva telefonato e si erano dati appuntamento al Flore a Parigi. L’idea era
che lui scrivesse un racconto con la promessa che poi lei si sarebbe impegnata
a viverlo, avrebbe seguito in tutto e per tutto le indicazioni dell’autore per
trasferire nella realtà quel che lui aveva immaginato. Aveva già proposto la
stessa cosa a Paul Auster, ma poi la cosa era finita in nulla, aveva aggiunto
Sophie.
L’autore non se lo fa dire due volte e si mette al lavoro.
In due settimane scrive El viaje de Rita
Malú e lo spedisce per posta elettronica. Sophie non risponde. Il tempo
passa e l’autore s’innervosisce, ha un blocco di creatività, non scrive più nulla
se non appunti su un suo diario personale. Seguono una serie di ostacoli. La
mail dell’autore era finita nello spam, poi muore la madre di Sophie, poi la
Biennale di Venezia le affida un incarico importante. Sophie continua a
dichiarare di essere attratta dal progetto, ma per un motivo o per l’altro
l’orizzonte s’allontana. Seguono scambi di mail, incomprensioni, incontri
fugaci al Salone del Libro a Parigi. Segue un intervento che l’autore subisce a
causa di un’insufficienza renale che quasi rischiava di farlo andare in coma.
Intanto lui non scrive.
Prova a reagire. Prende a caso le prime righe del suo diario
e decide di metterle in pratica, di provare a viverle, di essere lui a fare
quell’esperimento che Sophie sembra così renitente a fare.
Il diario inizia così: “Amanece en mi cuarto de las ventanas
altas cuando, al inaugurar este cuaderno rojo de notas o diario que escribiré
desde Barcelona y otras ciudades nerviosas, me pregunto cuál es mi nombre,
quién escribe, y se me occurre che mi cuarto es como una cavidad craneal de la
que surjo como un ciudadano inventado...”
Ma come diavolo si fa a vivere delle frasi del genere che
non sono altro che letteratura?
Allora va avanti nella lettura, ripercorre i suoi appunti,
arriva al momento in cui, pensando a Sophie Calle, ha cominciato a inventarsi
una storia. La storia di un’artista famosa che si mette in contatto con lui,
che gli da appuntamento a Parigi e che gli chiede di scrivere una storia che
lei si sarebbe poi impegnata a vivere. E poi le mail che non tornano, i
ritardi, le incomprensioni e tutto il resto.
“Perché ho inventato tutto questo?” si domanda l’autore.
Forse proprio perché lei non me l’ha mai chiesto, porque ella no lo pidió.
Porque ella no lo
pidió è un racconto di Enrique Vila-Matas che compare nella raccolta Exploradores del abismo (Anagrama,
2007).
Poi il racconto non finisce così, ma non vi dico come
finisce. Resta il fatto che c’è una distanza abissale tra la letteratura e la
vita e che Vila-Matas soffre e rifugge l’attrazione di quell’abisso che è la
vita, di quello che lui chiama ese
tenebroso agujero que llamamos vida. Il titolo del post, l’ammetto, è un
po’ sforzato (non esiste una buona letteratura contrapposta a una mala vita),
ma il quasi anagramma m’è parso subito irresistibile.
Resta il fatto che ogni volta che leggo qualcosa di Enrique Vila-Matas
mi convinco di aver a che fare col più grande scrittore vivente. Poi chiudo il
libro, rientro nella vita reale, mi rituffo nel mio abisso. In qualche modo
torno sobrio. Capisco di aver esagerato. Ma non di tanto.
Non di tanto.