lunedì 26 agosto 2013

Gli intraducibili (4): For Whom the Bell Tolls





Avevo letto in italiano Per chi suona la campana di Hemingway all’epoca del liceo e m’era sembrato un bel libro. L’ho ritrovato recentemente in edizione originale (Penguin, 1955) e ho scoperto che:


1) Hemingway fa parlare tutti gli spagnoli come se fossero dei personaggi della Bibbia (Thou shalt not kill) o di una tragedia di Shakespeare (“I am a fool. Thou art nothing” Re Lear, I, 4). La storia si ambienta sulle montagne tra Madrid e Segovia. Quei poveri montanari analfabeti probabilmente parlavano un dialetto scarsamente comprensibile. Ma quel perfetto burino americano di Hemingway (a cui hanno dato il Nobel e a Graham Greene no) pensa che si tratti di un antico castigliano, il castigliano usato da Quevedo. Quando si dice la cultura!

Per questo tutto il libro è disseminato di (stavo per dire littered with) espressioni come: How do they call thee? (p. 7 e 22) What hast thou in the stomach? (p. 18) Until thou hadst horses thou wert with us. Now thou art another capitalist more. (p. 19) Hast thou seen what thou needest? (p. 39) Thou wilt blow no bridge here. (p. 53). Robert e Maria sono soli, infilati nel sacco a pelo, e lui le dice: Thou art very beautiful now. (...) Thou hast a lovely body. (p. 156) Potrei andare avanti così per pagine e pagine. Thinkest thou that thy entry carries importance? (p. 253) If thou hadst seen it thou woudst not call it a novel. (p. 284). Oh, I love thee very much. Thou and thy whisky I could not have. What a pig thou art. (p. 325) Thou, Sanchez. Thou commandest in my place. (p. 356). Thou understandest (...). (p. 378). I will do as thou orderest. (p. 385).

Va da sé che tutti questi dialoghi sono tradotti in italiano corrente e quindi il lettore italiano non può rendersi conto di nulla.


2) Quel perfetto buzzurro americano di Hemingway (a cui hanno dato il Nobel e a Borges no) decide inoltre di intercalare alcune espressioni tipiche spagnole, giusto per buttarla un po’ sul pittoresco, e per fare questo le traduce alla lettera.

Menos mal diventa così Less bad (p. 17, 62, 138, 145 e 275). Fue un placer si trasforma in I received a pleasure (p. 44). ¿Te divertiste anoche? viene reso con Did you divert yourself last night? (p. 77). ¡Qué barbaridad! diviene What a barbarity! (p. 47) o in alternativa How barbarous! (p. 114). E alla fine la migliore di tutte: ¿Qué pasa contigo? che trionfalmente e più volte viene tradotto con What passes with thee? (p. 88, 214, 215 e 296).

Ora, voi lo sapete, a me non piace battere attorno al cespuglio (to beat around the bush), a me piace parlare tacchino (to talk turkey), sciogliermi i capelli (to let my hair down), scendere giù fino ai pomelli d’ottone (to get down to brass tacks), fare un petto pulito di tutto questo (to make a clean breast of it) e, se solo Hemingway fosse ancora vivo e scalciante (alive and kicking), non esiterei a dargli un pezzo della mia mente (a piece of my mind) e a dirgli che questa è una delle cose più stupide che abbia mai letto in vita mia.

Va da sé che nella versione italiana tutto questo non si nota.


3) Quel perfetto bifolco americano di Hemingway (a cui hanno dato un Nobel non per l’opera nel suo complesso, ma per un unico libro di cento e qualcosa pagine, intitolato Il vecchio e il mare) probabilmente non sapeva lo spagnolo o quantomeno non riteneva importante essere preciso con lo spagnolo. Lo si deduce dal fatto che scrive aburmiento invece di aburrimiento (p. 46), Arriba España! Invece di ¡Arriba España! (p. 109),  siga invece di sigue (p. 229), déjamos invece di déjame (p. 258), aguantarse invece di aguantar (p. 282), aspesar invece che a pesar (p. 392). Senza contare coma fué, como so fuera, mat, qué pa che potrebbero essere dei semplici refusi.

Va da sé che nella versione italiana (quasi) tutti questi errori vengono corretti e quindi non si percepiscono.


4) Nel libro tutti i possibili termini offensivi o volgari sono cancellati. Ovvero, come dicono gli inglesi, il libro sembra bowdlerizzato. Ma non si tratta di censura, è stato lo stesso Hemingway a scriverlo così nella speranza di riuscire a venderlo al pubblico più ampio dei Book Club. E così per tutto il testo troviamo insopportabili espressioni del tipo: you lazy drunken obscene unsayable son of an unnameable unmarried gypsy obscenity (p. 35), go then unprintably to the campfire with your obscene dynamite (p. 46) unprintable hunger (p 46), care for thy umprintable dynamite (p. 47), where the un-nameable is this vileness I am to guard? (p. 91), then go and befoul thyself (p. 91), go and obscenity thyself (pp. 204 e 420), go and befoul them (p. 208), where the obscenity have you been? (p. 262), to obscenity with all fascism good (p. 269), obscenity them, oh God and the Virgin, befoul them (p. 282), go defile thyself (p. 285), oh muck my grandfather and muck this whole treacherous muck-face mucking country (...) (p. 349), I obscenity in the midst of the holy mysteries that I am alone (p. 352), go obscenity yourself (p. 374), obscene your trasmission (p. 388), obscenity thy orders (p. 389). E poi la migliore di tutte: go the unprintable and unprint thyself (p. 47). È la migliore perché ci vorrebbe McLuhan per capire come si fa a “distipograficizzarsi”. O ci vorrebbe almeno l’Arcivescovo di Costantinopoli.

Come se non bastasse c’è tutta la serie di me cago en la leche, un’espressione comune in Spagna con riferimento ai genitori (me cago en la leche de tus padres) o alla madre (me cago en la leche de tu puta madre) in cui leche sta per latte materno, ma sta anche a significare sperma. In italiano si può rendere con al diavolo, all’inferno oppure me ne frego di... Quel genio di Hemingway la traduce alla lettera e poi la censura. Il risultato è che abbiamo I obscenity on the milk (p. 262), I obscenity on the milk of your tiredness (p. 91) ...on the milk of your fathers (p. 109)... on the milk of your Republicanism (p. 109)... on the milk of the Republic (p. 118)... on the milk of thy shame (p. 136)... on the milk of all of you (p. 137) ... on the milk of thy cowardice (p. 207)... on the milk of science (p. 407). Senza contare alcune raffinate varianti come I besmirch on the milk of thy duty (p. 91) e I un-name on the milk of their motors (p. 91).

La cosa è tanto più strana se si considera che nel libro compaiono comunque alcune parole scorrette. Abbiamo damned gun a p. 254 e damned careful a p. 350. Abbiamo un god-damn a p. 171, un son of a bitch a p. 427, più tutta una serie di whore (pp. 294 e 406) e di hell (pp. 57, 91, 168, 388 e 420). Dunque non è hell la parola incriminata. Evidentemente è fuck. Il che è dimostrato chiaramente a pagina 353 dove si parla di fornicating wire (che viene tradotto in italiano con porci fili), ma soprattutto a pag. 294 dove troviamo la frase The fornicator ducked back. Il termine censurato qui sarebbe fucker ovvero stupido, stronzo, volendo essere casti si potrebbe rendere con “quel maledetto”. La cosa purtroppo sfugge anche alla traduttrice italiana che traduce piatta piatta: Quel fornicatore è stato svelto a buttarsi giù (Mondadori, 1996, p. 331). Ora, immaginate la scena. Siamo durante la guerra civile spagnola, un montanaro analfabeta spara al nemico, lo manca perché quell’altro si accuccia e lui, con tutto l’aplomb del mondo, arriva a dire: Affé mia, quel fornicatore s’è mostrato ben svelto di gambe. Neanche fossimo in uno sketch dei Monty Python!

Va da sé che di tutta questa bowdlerizzazione nella versione italiana non c’è traccia.




5) Ora, io non ce l’ho coi traduttori. È dal giorno in cui mi sono trovato a fare il traduttore che ho smesso di prendermela con i traduttori. So che è un mestiere duro. Tendenzialmente non un mestiere per gente perbene. La traduttrice di Per chi suona la campana per Mondadori, Maria Napolitano Martone, ha fatto un ottimo lavoro. Ha fatto esattamente quel che bisognava fare. Certo, tradurre I befoul myself in the milk of the springtime (p. 91) con Io caco nel sugo della primavera (p. 101 dell’edizione italiana) non è stata esattamente un’idea brillante, ma non è colpa sua se l’originale è così ridicolo.

Dirò di più, Maria Napolitano Martone non solo ha fatto un ottimo lavoro, ma è riuscita addirittura a migliorare il libro. Considerate questa frase: “È vero che faremo saltare un ponte e poi dovremo scappare da questi monti come cani fottuti?” (p. 51). Secco e asciutto come solo Hemingway sa essere, vero? Peccato che l’originale dica così: “[Is it true] That we blow up an obscene bridge and have to obscenely well obscenity ourselves off out of these mountains?” (p. 47).

Eppure, con tutto questo, il libro è stato tradotto bene. O meglio è stato tradotto nell’unico modo possibile. È questa la tragedia.


martedì 20 agosto 2013

Margery Allingham e il suo cretino




Margery Allingham non ha mai amato Albert Campion. La prima volta che lo fa entrare in scena lo presenta così: “He's quite inoffensive, just a silly ass” (The Crime at Black Dudley, 1929, La lunga notte di Black Dudley). Di fatto un povero scemo dalla faccia così vuota che anche quando pensa, sembra che faccia finta di pensare: “(...) his pleasant vacuous face wrinkled in a travesty of deep thought” (Police at the Funeral, 1931, La polizia in casa).

In Look to the Lady (1931, Il segreto della torre) osserviamo la sua vacuous face (pp. 25 e 73, Penguin, 1950) che a p. 78 diventa more vacuous than usual. Poi vediamo la sua pale ineffectual face (p. 73), quindi la sua abitual expression of affable fatuity (p. 172) oppure di complete inanity (p. 58) o ancora di apparent imbecillity (p. 99). Mr Campion sorride foolishly a pp. 91 e 98. Poi si mostra more foolish than before a p. 110 e foolish-looking as ever a p. 172, ma dev'essere per via del suo almost imbecile smile (p. 269). Tanto che a un certo punto Penny non può fare a meno di dirgli: Albert, you're an idiot (p. 110).

Questo per dire che non si tratta di riferimenti sporadici. Allingham lo fa apposta. Che si tratti di larvato femminismo o che Campion nasca come parodia di Lord Peter Wimsey, il personaggio creato da Dorothy Sayers, sta di fatto che il nostro non è il prototipo né del genio deduttivo, né del maschio rubacuori e travolgente.

La verità è che lei non voleva farne un personaggio fisso. In The Crime at Black Dudley è una figura di contorno. Diventerà protagonista più tardi, anche su cortese spinta del suo editore americano (Doubleday). E quando il tuo editore americano ti suggerisce qualcosa, in genere non stai a discutere più di tanto. Il problema vero è che non puoi andare avanti per 19 romanzi e 32 racconti (tra il '29 e il '68) a raccontare le vicende di uno che è sostanzialmente un cretino. Allora Campion cambia, con gli anni diventa più serio, si sposa, fa un figlio, a volte perde la centralità della narrazione, diventa suo malgrado second fiddle, come dicono gli inglesi.

E poi nel 1941 le viene un colpo di genio. Margery Allingham è stata una scrittrice versatile, ma non trascendentale. Una scrittrice solida, i cui romanzi sono ancora tutti in circolazione e vengono regolarmente ristampati, ma non particolarmente originale. Eppure l'idea di The Traitor's Purse (1941, L'amnesia del signor Campion) è fulminante.

Un uomo, accusato dell'omicidio di un poliziotto, si sveglia in un letto d'ospedale con la mente totalmente vuota. Riesce a fuggire, ma solo per trovarsi impelagato in un oscuro intrigo in cui i destini del mondo (o almeno quelli della Corona) sembrano dipendere esclusivamente da lui, Albert Campion. Peccato che lui non abbia la minima idea di che cosa si tratti.

Quando il sovrintendente Hurst gli chiede spiegazioni lui risponde: “I can't tell you. (…) Don't you understand? I'm simply unable to tell you” (p. 71, Penguin, 1973). Ed è del tutto sincero, non è in grado di dire nulla perché non sa nulla, è una tabula rasa. Lo stesso capita con Amanda a cui risponde: “I only wish I could tell you”. E lei lo giustifica subito dicendo: “Yes, well, you can't. (…) You're under oath and that's final. I don't mind” (p. 57). Sei sotto giuramento, è chiaro che non puoi parlare con me dei segreti di Stato. Ci casca anche Lee Aubrey: “I admire your magnificent reticence, Campion. It's impressive” (p. 88). Anche se quella che sembra reticenza professionale, in realtà non è altro che beata ignoranza, insulsaggine, quando non comunissima idiozia.

Il capolavoro del fraintendimento lo raggiungiamo quando Campion decide di rivolgersi a Sir Henry Bull (Junior Lord of the Treasury). Sul treno per Londra incontra uno sconosciuto che gli parla di inflazione, di alto tradimento e di altri misteriosi pericoli. E Campion manco lo sta a sentire. Quando finalmente va a bussare alla porta di Sir Henry scopre che era lui il tizio del treno e pensa di aver fatto una crepa colossale. Ma l'altro, invece di sospettare di aver davanti un emerito deficiente, prende su di sé tutta la colpa. “I know I've been very obtuse,” gli dice. Non avevo mai pensato che potessero mettere dei microfoni nelle pareti dei vagoni ferroviari, ma spero di non aver detto nulla di grave, di non aver rivelato dei segreti (pp. 158-159). 
Io me l'immagino a quel punto Campion con la bocca aperta, la fronte aggrottata e gli occhi rivolti in alto alla Verdone, che pensa: “Microphones in the wall of railway carriages? Uh?”.

Poi alla fine Campion risolve il mistero, ovvero una storia di false sterline da gettare sul mercato così da provocare inflazione e rovina per l'economia inglese (siamo in tempi di guerra e un progetto del genere venne effettivamente tentato dai nazisti sotto il nome di Operazione Bernhard). Lo so, il finale è deludente. Ma a noi che importa, abbiamo ritrovato Campion così come l'abbiamo sempre conosciuto. E Margery ha ritrovato il suo cretino.


mercoledì 14 agosto 2013

Gli intraducibili (3): Alphonse Allais




Questa è facile. Alphonse Allais è stato un umorista. Dunque uno che lavorava nella carne viva della lingua. Dunque intraducibile per definizione. Ma l'origine vera di questo post non sta tanto nell'idea di dimostrare che è piuttosto difficile rendere in italiano l'espressione “Dure Allais, cède-les”. L'intento principale è quello di salvare Alphonse Allais dai suoi commentatori.

Il suo racconto più celebre, Drame bien parisien (1891), è la storia di Raoul e Marguerite, una coppia piuttosto litigiosa. Un giorno lei riceve una lettera anonima che l'informa che lui sarà presente a una festa in maschera con un costume da antico templare. Lui ne riceve un'altra secondo cui lei parteciperà alla stessa festa travestita da piroga congolese. Arriva la sera cruciale e arriva la resa dei conti. La piroga congolese e l'antico templare si appartano in una stanza, si guardano, si strappano le rispettive maschere, si guardano e scoprono che non erano né l'uno né l'altro. Lui non era Raoul. Lei non era Marguerite.

Ora, non cercate di capire com'è andata davvero. La storia va presa alla lettera, con tutta la sua mancanza di senso. Non così ha pensato Jacques Lacan che di quel racconto ha parlato per ore il 9 giugno 1971 (qu'il était bavard, ce mec!) in uno dei suoi cristallini e indimenticabili seminari intitolato naturalmente D'un discours qui ne serait pas du semblant. E neppure Eco che l'ha citato in Lector in fabula, riportandone pure il testo originale integrale in coda all'edizione Bompiani 1979. E men che meno Jacques Baudrillard che gli ha concesso alcune imperdibili pagine del suo Le strategie fatali (Feltrinelli, 1984).

Di cosa parlino esattamente queste persone non saprei dire. Quel che so per certo è che Allais non meritava un trattamento del genere. Lui era una persona seria. Era capace di scherzare su tutto tranne che sull'opportunità di prendere un aperitivo. Era nato il 20 ottobre 1854 a Honfleur, lo stesso giorno, mese e anno di Rimbaud, senza che i due arrivassero mai a conoscersi e senza che la cosa avesse una minima influenza sulle loro vite, come lui stesso ci assicura.

Nel suo piccolo museo personale Allais conservava oggetti strabilianti come “la tazza da caffè col manico a sinistra per mancini, il cranio di Alphonse Allais da bambino, un pezzo originale di una delle numerose e false croci autentiche di Nostro Signore Gesù Cristo e tutta una serie di opere a cui gli autori avevano apposto la seguente dedica «Ad Alphonse Allais che mi sarebbe tanto piaciuto conoscere da vivo».

Da vivo si era occupato di riforma dell'ortografia (Ce ke jan pans, cé tré simple: je la trouv exélante. Ki nou dit ke no petit neveu ne se railleron pas de notre mani dimposé tel form à tel mot pluto que tel ôtr?) senza immaginare che circa un secolo dopo i suoi bis-bisnipoti avrebbero allegramente accettato il consiglio e composto così i loro SMS.

Si era occupato di metafisica (Tout est dans tout et vice versa), di teologia (Le mystère de la Sainte Trinité... ça manque de femmes!), di nominazione gemellare (J'ai connu un certain monsieur Terieur qui a eu deux jumaux. Il les a appelés Alex et Alain, ça ne fait pas serieux.). Oltre che, ça va sans dire, di bibite sedative, materiali plastici e formaggi piccanti.

Appétit vigoureux, temperament de fer,
Membert languit, Membert se meurt – ami si cher -,
Qu'a Membert?
Hé. Momille, bonjour! Comment va la famille,
Le papa, la maman?... Tu pleure, jeune fille?...
Qu'a Momille?
Je viens de rencontrer, allant je ne sais où,
Outchou, le professeur qui courait comme un fou.
Qu'a Outchou?

venerdì 9 agosto 2013

I francesismi di Ezio D'Errico



In Francia D'Errico c'era stato davvero. Pittore, drammaturgo, oltre che scrittore di gialli, Ezio D'Errico aveva vissuto cinque anni a Parigi all'epoca in cui questa era piena di aspiranti scrittori americani in cerca d'ispirazione. Per questo, al momento d'inventarsi delle storie gialle (non italiane perché il fascismo non voleva), lui non aveva fatto fatica ad ambientarle in Francia. Una Francia molto più plausibile, per esempio, degli Stati Uniti di Scerbanenco e del suo ispettore Jelling.

Peccato che Simenon fosse arrivato prima di lui. Il commissario Richard di D'Errico è grosso, calvo, testardo, irascibile, beve aperitivi e birre senza ritegno. Ha una sorella (non una moglie) apprensiva e amorevole che lo cura e lo rimbrotta a ogni pie' sospinto. È anche burbero e insofferente. Quando il suo amico Milton gli cita Gli assassini della Rue Morgue di Poe, lui sbotta: “Non leggo, non vado a teatro, non so niente! (…) io sono un poliziotto ignorante, cocciuto e superbo della propria asinità!”. Insomma è troppo Maigret per essere Richard.

Ma la cultura francese si sente. Ne I superstiti de l'Hirondelle (1940) c'è uno che vuol giocare al più furbo (jouer au plus fin). Ne La casa inabitabile (1941) la signora Julien dice “...tornavo dall'averla accompagnata alla scuola”. Ne Il naso di cartone (1940) si parla di levata (levée) per dire di uno che s'alza dal letto. Nello stesso libro c'è un tizio dall'aria gialla e itterica che ride controvoglia. Richard commenta: “Diciamo allora che rideva verde...”, ma D'Errico sa benissimo che in francese si dice “rire jaune”. È come se la battuta gli fosse venuta in francese e lui avesse provato (con scarsi risultati) a tradurla in italiano.

D'Errico, del resto non era il solo. L'impressione è che tutta la cultura (almeno giallistica) degli anni 30-40 fosse nettamente più francofila che anglofila. E questo nonostante gli autori più popolari e tradotti fossero Christie, Wallace, Doyle, Rinehart ecc... Ne La gatta persiana (1933) di Alessandro Varaldo si usa l'espressione “pagarsi la mia testa” (sia pure attribuendola a Madame Fanny, la manicure dell'Astoria). Ne Il pilota della notte(1935) di De Stefani si parla di “colpabilità”. Ne L'isola nella foresta (1935) sempre di De Stefani, la lingua ufficiale a bordo del piroscafo Vulcania è il francese.

Per non parlare di Augusto De Angelis. In Giobbe Tuama & C. (1936) troviamo: “La filatura fu facile (...)”. Ma sono in francesi che dicono filature, in italiano si dice pedinamento. In Sei donne e un libro (1936) il Questore viene descritto così: “Era più azzimato, più lisciato, più tirato a quattro spille del solito”. E questa è proprio la traduzione alla lettera di “tiré à quatre épingles”. A differenza di Richard, il commissario De Vincenzi è uno colto e ci tiene a farlo sapere. All'inizio de Il banchiere assassinato (1935) il collega De Blasi lo coglie mentre cerca di nascondere sotto una montagna di carte un libro che sta leggendo. Sarà Pirandello o magari Froind, insinua De Blasi. Rimasto solo, De Vincenzi dissotterra il libro: “Non era Freud. Era Lawrence. Le serpent à plumes. I sensi...” The Plumed Serpent di Lawrence era per l'epoca un libro osé. Il riferimento è tanto più snob se si considera che il libro sarebbe uscito anche in Italia lo stesso anno (il 1935) presso Mondadori per la traduzione di Elio Vittorini. Ma a De Angelis-De Vincenzi questo non basta. Vuoi per sfiducia nelle traduzioni di regime, vuoi per anticipare anche di poco l'uscita italiana, lui Lawrence lo legge in francese. In quale altra lingua sennò?


mercoledì 7 agosto 2013

Gli intraducibili (2): Robert Wright Campbell



Non capita a molti scrittori di avere un aggettivo derivato. Non tutti possono essere Kafka. Eppure il Merriam-Webster accetta il lemma “runyonesque” come tipico dei personaggi e delle atmosfere create da Damon Runyon.
Uno che viene definito come “runyonesque” è Robert Wright Campbell.

Sarà per l'uso insistito del presente, anche quando si riferisce a episodi passati.
Down at the morgue I got a friend I go to school with when we was in grammar school. When we're thirteen and fourteen Eddie Fergusen and Dick Hodgson and me run around after school. We play softball and toss baskets and squeeze Sheila Coletti's big tits on the school steps after the sun goes down in summer. (Junkyard Dog, Mysterious Press, 1988, p. 75)

Sarà per l'uso di termini gergali.
They call it usury, shylocking and loan-sharking. They call it juice. They lend you a hundred and call it small. They lend you a thousand and call it a bone. It costs a hundred a week vigorish to borrow the bone. (Juice, Allison & Busby, 1990, p. 23)

Sarà per le sporcature del linguaggio.
What do you know,” I says. “Anybody ever tell you how much you look like Burt Reynolds?”
He looks about as much Burt Reynolds as my left foot, but the flattery is enough to thaw him out in a second. It ain't only women what like to be told they look good. (Sauce for the Goose, Coronet, 1994, p. 69)

Sarà per questo che in Italia non ha mai avuto un gran successo o grandi traduzioni. (Due titoli appena per Mondadori). Anche perché, se espressioni come we was, I says, it ain't sono piuttosto comuni, per quanto intraducibili, qualcuno deve spiegarmi come si fa a rendere l'uso non episodico che Campbell fa di what al posto di who (women what like to be told). E poi shylocking verrà pure da Shakespeare, ma non c'è verso di tradurlo con shyloccaggio.

A pochi scrittori capita di creare un neologismo e vedersi aprire le porte dei dizionari ufficiali. Per indicare la zona attorno a Los Angeles, Campbell s'è inventato il termine La-La-Land che l'Oxford English Dictionary, nell'edizione del 2011, ha fatto suo. In quei dintorni Campbell ha ambientato una serie di quattro romanzi che hanno come protagonisti Whistler, un investigatore privato, Canaan, un poliziotto con un trauma, e Bosco, il barista senza un braccio e che, sia pure con un braccio solo, legge Platone. Sono le tre di notte e siamo da Gentry's, il bar di Bosco.

There's an ancient tale from somewhere that says that if everybody were to close their eyes at the same moment the world would disappear. It was three A. M. and Bosco, Canaan and Whistler, the resident insomniacs, were saving the world from winking out. (In La-La-Land We Trust, Sheridan Books, 1994, p. 106)

Non stupisce allora che Newgate Callender (in realtà Harold C. Schomberg) l'abbia definito sulla New York Times Book Review “one of the most stylish crime writers in the business”. E adesso non chiedetemi l'equivalente italiano di stylish. So soltanto che non è stiloso.